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Strutturale o temporanea? La certezza è una sola: il 2022 è l’anno dell’inflazione

 
Antonello Garzoni

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Antonello Garzoni

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L'economista: "La recente mossa di Christine Lagarde getta benzina su borse già incediate da un evento inatteso e luttuoso qual è la guerra in Ucraina"

Mercoledì 16 Marzo 2022, 14:51

La recente mossa di Christine Lagarde di rivedere leggermente al rialzo le aspettative di inflazione per l’area europea, pur mantenendo una linea di medio periodo con aspettative di riduzione dell’inflazione già a partire dal prossimo anno, getta benzina su borse già incediate da un evento inatteso e luttuoso qual è la guerra in Ucraina.
A seguito di tale evento la Bce ha rivisto al ribasso la stima della crescita della zona euro al 3,7% (dal 4,2% indicato a dicembre), al 2,8% per il 2023 (dal 2,9%) e confermato un +1,6% per il 2023. Al contempo, lo scenario dichiarato sull’inflazione nell’eurozona è del 5,1% nel 2022 (dalla proiezione del 3,2% di dicembre), 2,1% nel 2023 (contro un 1,8%) e 1,9% nel 2024 (in linea con l’1,8% previsto a dicembre). Eppure la situazione è sotto gli occhi di tutti: volano le bollette, fare il pieno è ormai diventato uno status symbol, il costo di pane e pasta è cresciuto mediamente del 15% negli ultimi mesi, con un’ulteriore attesa al rialzo. L’uomo della strada percepisce qualcosa di diverso dai banchieri seduti nelle loro torri d’avorio. A beneficio dei primi, cerchiamo di fare chiarezza. Negli ultimi venti anni, anche grazie all’euro e ad una stabilità complessiva dell’eurozona, ci siamo dimenticati del significato del rialzo dei prezzi. L’inflazione è stata mediamente molto contenuta e, al di là di momenti episodici legati all’immissione di liquidità nel sistema post crisi del 2008, si è mantenuta stabile. Ciò ha consentito di mantenere i tassi di interesse su livelli molto contenuti, con grande beneficio di tutti (privati cittadini e stati). Non è infatti un mistero l’impatto di un rialzo dei tassi di interesse sui debiti, soprattutto quando molto alti e crescenti. La riduzione del tasso di inflazione è stata anche favorita, negli ultimi trenta anni, dalla crescente globalizzazione dei mercati e delle filiere produttive. È evidente che in un contesto globale, le aziende possono acquistare prodotti e materie prime mettendo in competizione più produttori e, dunque, riducendo i comportamenti opportunistici di imprese locali. Il tutto in un contesto di crescente digitalizzazione e di aumento dell’efficienza logistica nei trasporti oltre oceano.
In questo scenario, il primo punto fermo per la ripresa dell’inflazione consiste nella progressiva deglobalizzazione dei mercati imposta dalla pandemia, che ha fortemente ridotto gli scambi con l’estero e fatto riemergere mercati locali delle materie prime e dei servizi. Anche nelle produzioni di componenti meccaniche si è iniziato ad apprezzare il «Km zero», quasi fossero alimenti biologici altamente deperibili. A questo effetto si è aggiunto e sovrapposto l’aumento del prezzo del petrolio e la conseguente crisi energetica che oggi sperimentiamo, aggravata dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Senza voler essere eccessivamente semplicistici, i fatti che hanno generato questa situazione paradossale (se consideriamo che la nostra economia non è radicalmente cambiata dal punto di vista energetico negli ultimi anni) sono quantomeno due. In primo luogo, la crescita stessa dell’economia mondiale dopo un periodo di profonda stagnazione imposta dal lockdown. La ripresa e l’accelerazione delle imprese ha generato improvvisamente nuova e crescente domanda di energia, in un contesto in cui l’offerta si era pressoché stabilizzata. Nei libri di economia la legge della domanda e dell’offerta parla chiaro: se la domanda cresce e l’offerta rimane stabile, i prezzi salgono.
Dunque, un primo fatto è che la ripresa dell’economia a seguito della pandemia è alla base della crescente domanda di gas per fare funzionare le fabbriche. E dei conseguenti prezzi. In secondo luogo, a fronte di una offerta energetica nei fatti immutata, i governi di tutto il mondo (ma in particolare in Europa, per effetto del Next Generation-Eu) hanno proclamato importanti trasformazioni nelle modalità di approvvigionamento e generazione dell’energia, stimolando la produzione da fonti rinnovabili e nuovi scenari energetici (l’idrogeno, tra tutti). Questo ha immediatamente modificato, nei paesi produttori di petrolio e con forti giacimenti di gas, l’atteggiamento nei confronti delle loro future economie. Nei fatti, si è passati da giacimenti che potevano durare per almeno altri cento anni a risorse che potevano essere vendute sui mercati mondiali solo per i prossimi dieci-venti anni. Si è passati dalle rendite perpetue di Ricardiana memoria a modelli finanziari basati su periodo di tempo limitati, con una necessaria revisione al rialzo delle attese lato offerta. E conseguentemente dei prezzi.
In tutto questo, ritornando a Christine Lagarde, il ruolo delle banche centrali non è ininfluente per stabilizzare i mercati e le prospettive sono sostanzialmente due. Chi, come la Bce, vede l’inflazione come temporanea. Chi, come la Fed, vede l’inflazione come strutturale. Se l’inflazione è temporanea, non occorre fare niente. Anzi, il rischio è che con una politica restrittiva si fermi l’ondata di crescita (di resilienza e ripresa) che consente all’eurozona di uscire dalla crisi pandemica. Se l’inflazione è strutturale, essa porta con sé una riduzione del potere d’acquisto e costringe ad una revisione delle politiche salariali, innescando un circuito vizioso da cui eravamo fortunatamente usciti grazie all’ingresso dell’Italia nell’Euro. In tal caso, per combattere in modo vigoroso l’inflazione, occorre alzare i tassi di interesse in modo da avviare una politica di riduzione della liquidità eccedente sul sistema e razionalizzare i flussi di investimento. Va da sé che il rialzo dei tassi di interesse ha come effetto un innalzamento del costo del debito e, nella situazione attuale in cui l’Italia contrae nuovo debito con l’Europa per finanziare il Pnrr, genererebbe un significativo peggioramento dei conti pubblici, oltre ad un problema per l’intera comunità. Da qui la posizione confusa della Bce, che butta benzina sul fuoco dei mercati finanziari: da un lato il voler considerare l’inflazione come «temporanea», prevedendo un rientro già dal prossimo anno; dall’altro dichiarando azioni volte a ridurre la liquidità sui mercati, come l’anticipazione della chiusura del quantitative easing, che aprono ad una prossima guerra dei tassi di interesse.
In tutto questo, un’unica certezza. Se il 2020 è stato l’anno della pandemia e il 2021 l’anno della ripresa, il 2022 sarà ricordato negli annali di economia come l’anno dell’inflazione!

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