La guerra non è un rimedio ineludibile e le guerre giuste di giusto non hanno mai avuto praticamente nulla a parte le maxi commesse per le aziende produttrici di armi, così ben rappresentate nei corridoi che contano, e per le lobby delle società petrolifere, desiderose di tenere in alto prezzi e margini. Esportare la democrazia suona bene ma che democrazia si esporta a suon di bombe, morti e distruzione? Siamo davvero convinti che non ci siano altre strade possibili per risolvere i conflitti?
Domande forse retoriche, forse no, alla luce di quello che sta accadendo da quasi due settimane nell'ex Urss. Ma l'invasione dell'Ucraina da parte dell'esercito russo ha molte cose diverse rispetto all'iconografia alla quale da trenta anni a questa parte eravamo abituati. Non ci sono distese polverose solcate da pick up con sopra soldati o mujaheddin armati di tutto punto e a tutto pronti, non ci sono abitazioni di fortuna e conflitti religiosi, veri o apparecchiati per pretesto. Le immagini e i racconti dei coraggiosi inviati ci rimandano strade palazzi e scuole simili a quelle che vediamo dalle nostre finestre, c'è gente che va a fare la spesa sprezzante di ogni pericolo e ci sono carri armati che percorrono le tangenziali delle città ucraine passando sopra auto civili.
È una guerra diversa, una guerra europea, ad un passo da noi, dal nostro mondo, dalle nostre cose. Una guerra che non sappiamo come, e quando, finirà ma che intanto ha già prodotto tante vittime e illuminato di paura i bambini ucraini e anche i nostri, di bambini, cancellando i loro sorrisi. Nel racconto La nuit, Eliezer Wiesel, scrittore rumeno naturalizzato statunitense, di cultura ebraica e di lingua francese, sopravvissuto ai lager nazisti di Auschwitz e di Buchenwald, scrive: «Dietro di me sentii il solito uomo domandare: Dov’è Dio. E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca». Appeso a quella forca c’era un bambino, ancora vivo per un soffio di tempo.
Dall'Ucraina ci arrivano storie strazianti come quella di Polina: aveva 11 anni, andava in quinta elementare. Era in auto con la sua famiglia, lunedì scorso. Con il fratello e la sorella. Era su una strada a nord-ovest di Kiev quando l'auto di famiglia si è ritrovata in mezzo ad uno scontro tra un comando delle forze speciali russe e l'esercito ucraino. L’auto è stata crivellata di colpi: Polina è morta sul colpo. Come la vicenda di Alisa Hlans, 7 anni, deceduta nel corso del bombardamento dell'asilo di Ochtyrka, una settimana fa, nel Donbass. Due tragedie che dovrebbero aprire gli occhi a tutti e dare risposte ai nostri bambini e ai nostri ragazzi che dopo due anni di clausura da Covid-19, quando sembravano essere ritornati alla vita normale, quella che tanto amano e che era stata loro negata, all'improvviso hanno scoperto la guerra. Non quella in Iraq o in Afghanistan, così per loro simile a un videogioco bellico da non apparire reale. Ma la guerra combattuta in città dalle sembianze europee, così simili a quelle nelle quali viviamo, la guerra contrassegnata da lutti e macerie, da conseguenze dirette sulla vita di tutti i giorni, a partire dal caro energia, da scenari che a molti fanno chiedere se davvero, nel 2022, dopo tutto quello che abbiamo passato e in parte stiamo passando a causa della pandemia, il ricorso alla forza sia una soluzione ancora spendibile.
Pier Paolo Pasolini, al quale ieri la Gazzetta ha dedicato un inserto-sovracopertina in occasione del suo centenario, nell’estate del 1943 scrisse a Franco Farolfi: «La guerra non mi è mai sembrata tanto schifosamente orribile come ora: ma non si è mai pensato cos’è una vita umana?». Una domanda terribilmente attuale.