Sabato 06 Settembre 2025 | 13:01

Bellocchio a Bari presenta Rapito: «Il mio film, atto d’accusa contro ogni violenza»

 
STEFANIA MICCOLIS

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STEFANIA MICCOLIS

Bellocchio a Bari presenta Rapito: «Il mio film, atto d’accusa contro ogni violenza»

Il regista: a guidare il lavoro nel cinema è il sentimento. Oggi al Galleria di Bari per la presentazione di «Rapito»

Sabato 03 Giugno 2023, 09:00

19:31

«Rapito» è uscito nelle sale da pochi giorni, «e ha anche un bel cammino da fare». Marco Bellocchio ha un tono riflessivo e melodico, una melodia che sembra quasi una nenia emiliano romagnola, e una tranquillità serafica, una piena meditazione dettata dal ragionamento. Ascoltare Bellocchio significa apprendere tante cose, ti incanta con le sue parole mai banali e ti trasmette tutta la passione e il suo amore per il cinema. E lo fa capire fin dall’inizio: «Ciò che mi attraeva e mi ha mosso a raccontare questa vicenda è la storia stessa dei personaggi e del bambino, Edgardo Mortala, e del suo destino infelice per una violenza subìta in nome di una intolleranza, di un principio religioso per il quale chi è battezzato deve essere educato come cristiano. La prima spinta e pulsione è stata raccontare questa storia».

È un film possente, e sprigiona forza dalla parola dogma pronunciata dal papa. Fa ricordare i quadri del Masaccio, che con la prospettiva ha creato spazio e ambiente in cui inserire le masse, sempre coordinate alla figura del Cristo (qui il papa). A Masaccio, scriveva Argan, interessava il dogma, non il miracolo, «il fatto storico per eccellenza perché è fatto umano che attua una decisione divina».

Lei lo ritrova nel film?

«È chiaro che noi proseguiamo anche per traiettorie non razionali, non logiche, e il Masaccio che è un grande genio della pittura quattrocentesca può avermi influenzato, ma non in maniera diretta. Naturalmente per le ambientazioni domestiche e chiesastiche è stata utile anche la pittura ottocentesca, ma come documentazione, non come ispirazione».

E a Visconti, alla sua opulenza, precisione e quasi leziosità nei dettagli, ci ha pensato?

«Mi viene in mente Senso e certe battaglie rappresentate. Ma per la limitatezza dei mezzi abbiamo cercato di sintetizzare in poche immagini grandi eventi storici, e qui ci sono venuti in aiuto i quadri ottocenteschi e non abbiamo poi raggiunto quella grandiosità di Visconti».

Come è maturata la decisione di cambiare titolo da Conversione a Non Possumus e infine a Rapito?

«La conversione, non mi ha mai entusiasmato; si tratta di una conversione forzata e invece si poteva intendere come reale, libera. Inoltre ho sentito una esplicita disapprovazione da parte della comunità ebraica: il piccolo ebreo ha subìto una violenza, non una conversione, e in qualche modo ho risposto a questa sollecitazione. Poi Non possumus: in nome di un principio, di un dogma, di un assoluto religioso il bambino non doveva essere restituito, era diventato cristiano e per sempre; ma il titolo non convinceva la distribuzione italiana e internazionale. Infine Rapito, che corrisponde al vero significato: prima era in inglese Kidnapped, tra l’altro un romanzo di Stevenson, ma il film ha una sua identità italiana, non potevamo lanciarlo col titolo in inglese».

Ci sono stati attori con i quali ha avuto più difficoltà? E scene per cui ha avuto più preoccupazione?

«Ci sono esperienze che un attore raccoglie dalla propria vita, dalle proprie emozioni, il metodo Stanislavskij. Ma per Paolo Pierobon il tragitto è stato più complesso con un percorso diverso per arrivare al papa e che non aveva mai vissuto, ma lui è un grande attore e ci è riuscito. Poi ero preoccupato per il bambino, ma Enea Sala si è immerso nella vicenda con molto candore e semplicità trovando naturalmente la sua strada, senza un metodo. Si è calato in una tristezza, in un dolore autentico; e in quelle scene difficili, il rapporto affettivo coi genitori, i momenti ravvicinati tra madre e bambino, in cui tutto si gioca sulla bellezza delle immagini, sulla luce che passa attraverso il loro sguardo, la preoccupazione c’è, perché sono le scene che a seconda di come riescono decidono il destino del film».

Esiste un legame, un filo che collega tutti i suoi film dai «Pugni in tasca» ad oggi e che guida le sue scelte?

«Il filo c’è senz’altro, sono io stesso che conduco il gioco e le tappe della mia vita mi rapportano in una maniera anche misteriosa alle cose che faccio. Oggi non credo a certe cose a cui credevo 50 anni fa, con la politica per esempio ho una posizione non moderata, anzi radicale, ma una radicalità che è sempre meno distruttiva. Nei Pugni in tasca si dovevano ammazzare la mamma e i fratelli, ma poi negli anni cambia il sentimento, le cose in cui credere, cambia il mondo enormemente. Viviamo in una società quasi irriconoscibile rispetto a 60 anni fa e noi siamo cambiati. Ma al di là dei risultati ho sempre cercato di fare le cose che mi corrispondevano e che non fossero emotivamente a me ignote, sennò nulla ha più senso. Spero che gli spettatori si possano orientare in questo, la bussola è la mia stessa vita, i miei affetti, le persone cha amo, le persone che non ci sono più e quelle che sono cresciute. Questa è la bussola della mia vita e del mio lavoro».

Lei è stato diverse volte in Puglia e le hanno dato dei riconoscimenti importanti. Ha in progetto di fare qui dei film?

«La Puglia è una bellissima regione, la conosco poco, ma ho visitato le città e i monumenti più importanti, c’è tanta bellezza. Ricordo che feci la regia dello Zio Vanja con la compagnia di Michele Placido, ma pensai che se avessi trovato una masseria antica avrei potuto girarci il film, ma la cosa si è arenata, e sarà difficile riprenderla. Però è una terra con immagini che mi attraggono molto e chissà…».

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