Quando approdai al liceo Quinto Orazio Flacco avevo ovviamente completato il biennio del ginnasio. Il verbo approdare non suoni inappropriato, in quanto l’edificio di fronte al mare, allora visibile, con quei suoi oblò, sembra un po’ una nave.
Ci ero arrivata dalle medie di un piccolo, lontano paese di collina. La sfida era improba. Alle medie ero brava ma adesso dovevo dimostrare di farcela. In città, al prestigioso Flacco. Gli inizi furono belli, quasi giocosi. Eravamo tredicenni alle prese con professori vetusti, d’un’altra epoca. Donato Amoruso, la cui materia si estendeva dalle Lettere alla Geografia alla Storia, era un tipo severissimo dall’aspetto dantesco: piccolo, curvo, gli occhi di colore diverso (uno marrone e l’altro blu), un fil di voce, un cappotto liso e una sciarpa scozzese, si rintanava spesso in biblioteca e spaventava gli alunni per il sol fatto di spuntare da un vecchio armadio con un volume polveroso fra le mani. Ho saputo poi che lo soprannominavano “la salma”. Io però ne ho un tenero ricordo. Dava dei temi poetici: sulle Madonne di Raffaello, sulle nostre famiglie, sul mare. Avere un 7 da lui allo scritto, era una vittoria. Era egli stesso un gran narratore. I suoi ricordi risalivano a un tempo anteriore alla Prima guerra mondiale ed erano i momenti più belli delle ore che trascorrevamo con lui. Asseriva che nell’ufficio di suo padre armatore, a Barletta, aveva conosciuto addirittura, e qui assumeva un tono misterioso… Mata Hari. Aveva poi il gran pregio di farci mandare a memoria le poesie più note, Leopardi in primis ma anche i canti della Divina Commedia. C’era una sola interrogazione, alla fine di ogni trimestre, ma in quella bisognava mostrare una conoscenza enciclopedica, quindi lo studio era davvero intenso. Ciò non tolse che noi della Quarta G, classe mista, ci dessimo alla goliardia più sfrenata, sia pur innocua e infantile. Suggerivamo ad alta voce a chi stava alla lavagna, ma erano suggerimenti sbagliati; ci si passava le soluzioni durante i compiti in classe e si svolgevano frenetiche battaglie di freccette di carta. Senza escludere attacchi collettivi di riderella e note sul registro, a firma di Amoruso, citando il Giusti: «In tutt’altre faccende affaccendati».
La professoressa di francese titolare somigliava all’attrice Simone Signoret e arrotava la r alla perfezione, in un modo che cercavamo tutti di imitare. Poi ci fu una volta una sua supplente, una bella e raffinata giovane signora che veniva da «Bressia» e parlava con un accento inaudito, calcando appunto le esse. La professoressa di Scienze era una tipa bonaria con la cadenza di Bitonto e quella di Matematica, Maria Parmiggiani, una signorina d’età, che sarebbe rimasta con noi anche al liceo, era molto paziente, dimessa, così votata alla sua missione d’insegnante, così compresa del suo ruolo, gentile e modesta. Ci guardava con nostalgia, ci trovava tutti così belli, della “bellezza dell’asino” diceva, di quella bellezza cioè insita nella giovinezza e il bullismo non aveva moneta corrente nelle nostre aule. Piccola, i capelli raccolti, sapevamo di lei solo che veniva dal Nord ma risiedeva a Bari ormai da anni e ci accorgevamo che l’estate si avvicinava quando lei passava dalle scarpe ai sandali, ma sempre con le calze naturalmente. Si divertiva anche lei con noi, nonostante il suo aspetto austero: “Ma perché guardi sempre là?” mi chiedevamentre mi distraevo fissando il banco di fronte per vedere cosa facessero i bei ragazzi, uno biondo e uno bruno, che attiravano la mia attenzione. Non li ho più rivisti. Nemmeno al liceo.
Facevamo ginnastica? Non lo ricordo francamente, so solo che l’edificio stesso, con il suo vasto cortile senza un filo d’erba e nemmeno un alberello stentato, m’ispirava in certe mattine un rigetto assoluto, avrei voluto scappar via invece di salire le ampie scale chiare. Poi mi facevo forza e salivo. Per un intero lustro ho percorso via Trevisani all’andata e via Manzoni al ritorno, per arrivare in via Garruba, dove abitavo. Com’è strano che quei cinque anni siano stati così lunghi mentre ora passano in un battibaleno!
Al ginnasio dunque ci fu una certa spensieratezza, nonostante lo studio “matto e disperatissimo” che si protraeva fino a tarda sera. Al liceo tutto cambiò.La sezione G diventando E venne mutata in femminile, dato che il nostro comportamento non era piaciuto a quell’entità invisibile che era il preside. Le cose sarebbero state ancor più complicate.
Il professore di Lettere e latino, Michele D’Erasmo, aria sorniona, voce profonda, fare istrionico da attore consumato, sempre vestito con un abito scuro ma con una camicia candida dal colletto alla coreana, ci rassicurò fin dal primo giorno: “Non vi preoccupate se non riuscirete a seguire il mio piano di studio, io vi aiuterò… a cambiare sezione”.
Ci chiamava le sue damigelle e citava a piene mani i capolavori della letteratura russa: “Pensate ai poveri mugik!” Sguardo perso di noi ignoranti: “Non avete letto Tolstoj?!”, protestava lui. Oppure citava il viaggio del principe Miskin, trovando lo stesso sperdimento in una platea ancora a digiuno della grande letteratura russa. Correvamo a compulsare Dostoevskij e aveva ragione lui: “Guerra e pace va letto a 16 anni, l’età di Natasha!” Ci narrava l’epopea di Giuseppe Di Vittorio, colui che aveva liberato i cafoni dalla schiavitù degli agrari. “All’alba il soprastante sceglieva chi dovesse lavorare” e con il braccio destro e l’indice puntato indicava: “Tu sì tu no, ed era la fame per gli esclusi”. Le sue non erano lezioni ma in realtà monologhi teatrali: era un grande istrione. Ci mimava le novelle di Maupassant, i versi di Saffo. Ci raccontava i suoi viaggi, da Palermo a Istanbul. Di com’era rimasto davanti al famoso muro giallo di Vermeer nella “Veduta di Delft”: peccato che fossero le stesse parole di Proust, ma tanto noi non potevamo smascherarlo all’epoca. E poi era il suo modo di farci leggere e conoscere non solo Manzoni ma tutta la grande letteratura.
Adoravo Dionisio Altamura, il professore di Greco. Una lingua che non si parla più da secoli sembrava una specie di dialetto della porta accanto, senza segreti per lui che infatti vinceva medaglie d’oro in astrusi concorsi che si svolgevano perlopiù in Olanda. Non per questo però si dava delle arie, anzi era l’uomo più gioviale e simpatico che sia mai salito in cattedra. Studiare il greco con lui era divertente e il rendimento di noi tutte lo dimostrava.
A proposito di medaglie, ecco che avanza la medaglia d’oro al valor civile. Un eroe della Resistenza: il professore di Storia e Filosofia, Renato Scionti, dai magnetici occhi azzurri, aspetto da Abelardo, lo amavamo come tante Eloisa, nonostante sapessimo che viveva con un polmone solo (ferita di guerra? avventure tremende? non sapemmo), avesse una certa età e non ci parlasse mai di sé. Anche lui teneva lezioni con tono accademico e toscano (conservo ancora gli appunti, perfetti) anche se, seppi poi, veniva da Como, era figlio di una siciliana ed era cresciuto però a Firenze. Ti scrutava con quel suo sguardo indagatore chiedendoti: “Cosa mi racconti?”, la lunga mano sul volto, meditabondo, in attesa di un discorso degno di Socrate perlomeno. Anche D’Erasmo del resto era stato un protagonista di Giustizia e libertà, il movimento politico di sinistra che aveva contribuito a fare di Bari la prima città liberata, nel 1944. Erano fatti così: non si vantavano mai delle loro glorie passate, del resto erano all’ultimo ciclo di lezioni, vivevano del presente infondendoci soprattutto fiducia, in loro, nelle battaglie che si conducevano allora, come quella per il divorzio, nel 1974 e poi di politica parlavamo o piuttosto ascoltavamo durante le assemblee.
Il femminismo era ancora di là da venire: ricordo che al ginnasio scomparve da un giorno all’altro la mia compagna di banco, Rosa, che veniva da un paese del circondario. Il motivo venne detto a bassa voce, forse fu addirittura una bidella a svelarcelo: la ragazza era rimasta incinta. “Incidente” occorso anche a una certa Maria di Toritto. Chissà, in paese doveva accadere prima e spesso. E comunque per loro le porte del Flacco si erano inesorabilmente chiuse, nessuno che le cercasse, che s’interessasse di che cosa facessero. Restava un ammonimento filosofico: che se ci volevamo sposare e fare figli, non ci sarebbe servito studiare. Del resto, anche le ragazze impegnate, capelli alla vita ed eskimo d’ordinanza, le vedevo la mattina nella nebbia a distribuire volantini e poi correre al Pignone Sud, fabbrica occupata, sempre e solo la Pignone, forse non ce n’erano altre. Nella fumosa aula magna dalle tende di velluto giallo parlavano sempre e solo loro due: Marco della Fgc e Antonio di Lotta continua. Se poi, oltre all’assemblea, c’era pure il corteo, ci si spostava nella vicina Sala del mutilato. Il tutto si concludeva con un bel pezzo di focaccia fumante o un mélange bollente con tanta panna al bar del Liceo di via Pizzoli. Poi attraversavo piazza Garibaldi stando attenta a scansare i micidiali colpi di fionda degli altrettanto micidiali ragazzini baresi per andare a prendere mia sorella alla scuola Ferri, in corso Vittorio Emanuele.
Dopo tanto studio, la soddisfazione di andare a vedere i quadri era un rito da celebrare con la mia Mamma, il giorno più felice per me, a cui ci preparavamo entrambe con cura. Al punto da scegliere un vestito per l’occasione o da Pascal, all’angolo fra via Manzoni e via Garruba, o dall’Upim di via Crispi. Ricordo ancora uno chemisier di seta celeste a fiori che mi piacque tanto come i miei voti di quell’anno. Vedere 9 in Greco, e tutta la media alta, parlarne con soddisfazione con la mia adorata Mamma e poi a casa con Papà, contento pure lui, era gratificante al massimo. Ormai il temuto Flacco era casa mia.
Perciò quando arrivò quella mattina in cui il professor D’Erasmo mi chiese se avessi dormito come il principe di Condè prima dell’esame di maturità e quando poi, nel salutarci affettuosamente, accennò un galante baciamano, mi sentii, salutando la mia scuola, alla fine di un’epoca. Provai una malinconia infinita dando le spalle a quell’ingresso preceduto da pochi scalini. Il mio piccolo mondo Flacco si dissolse in una mattina di luglio.
















