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Bari, «Idee radicalizzate e violente si combattono con la cultura»

 
Marisa Ingrosso

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Marisa Ingrosso

Bari, «Idee radicalizzate e violente si combattono con la cultura»

L’esperta Martucci: all’Università di Bari corsi «ad hoc»

Sabato 12 Giugno 2021, 14:49

Bari - Una radicalizzazione “ossea”, priva dell’eclatanza e dell’aspirazione eversiva di quella jihadista, eppure come questa mimetica, rannicchiata nelle pieghe del nostro Paese, e crudele, ferale. È questo, secondo la studiosa barese Sabrina Martucci, l’alveo in cui può ricadere il caso che ha per vittima Saman Abbas e per presunti colpevoli una organizzazione legata da vincoli di sangue.

Martucci è professore aggregato in Diritto ecclesiastico comparato e docente di Diritto degli enti ecclesiastici nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Bari, coordina il Master di II livello in “Terrorismo, prevenzione della radicalizzazione e integrazione interreligiosa e interculturale”. Assieme a pochi altri studiosi in Europa, conduce ricerche lì dove il terrorismo ha radici nel ventre nero del sacro, inteso in senso ampio, non certo limitato al solo (ai molti) Islam.

Quando le chiediamo cosa fare perché in una zona rurale anche della Puglia o della Basilicata, non debba ripetersi quanto è accaduto alla ragazzina pakistana, per prima cosa chiarisce che quello in esame è «sicuramente un caso, per fortuna, isolato.

Non è una situazione ricorrente, soprattutto negli italiani o negli immigrati di fede islamica. Né è una dimensione che appartiene a tutto l’Islam». Per lei, per altro, «è stata molto importante la fatwa dell’Unione delle Comunità Islamiche in Italia», così come «la decisione di Grande Moschea di Roma e Confederazione Islamica Italiana di costituirsi parte civile nel processo penale».

«È importante – spiega la studiosa - dare voce anche alle comunità islamiche, che subiscono tutto ciò. Credo che l’obiettivo debba essere fare in modo che ci sia una maggiore presenza attiva di chi, come le Comunità islamiche, è parte della società civile e può promuovere cultura dell’integrazione. Quella del matrimonio combinato è una pratica etnico-sociale, che può avere anche matrici religiose, non solo riferibili al mondo islamico. Io insisto, bisogna evitare gli stereotipi sostenendo che tutto ciò che è riconducibile alla fede islamica sia prevalentemente sbagliato, pericoloso…. In Sri Lanka è comune anche tra i cattolici che i genitori scelgano il marito della figlia, per prassi sociale». Lungo il crinale tra matrimonio combinato e forzato, la Martucci rimarca però che «il matrimonio forzato è comunque inconcepibile, in qualsiasi cultura».
Di certo, nella gestione di casi simili, sarebbe opportuna «una maggiore collaborazione nella vicinanza» e, visto che c’era una segnalazione, una denuncia della giovane, «una maggiore attenzione a questo tipo di situazioni».

«È sfuggito qualcosa – riflette la professoressa - La ragazza ha avuto la capacità di preavvertire e di capire. Era consapevole non era disassociata o isolata, ha chiesto aiuto». Per l’esperta, proprio il comportamento di Saman dimostra come la scuola italiana funzioni nell’integrazione.

«Lei si è sentita al sicuro. Ha parlato, non ha avuto paura. Io credo – sottolinea - che sia importante preparare i ragazzi a una maggiore consapevolezza, che sappiano che sono liberi di parlare con le istituzioni, da intendersi come la scuola ma anche la stessa comunità religiosa. Chissà se lei si fosse rivolta alla sua comunità …».

Ma i docenti possono agire su questi nuclei familiari? «È una mediazione difficile – valuta Martucci - perché si sta entrando in un rapporto endofamiliare dove i genitori hanno, non dico potestà , ma diritto sui figli, ovviamente entro dei limiti delle garanzie costituzionali. E, quindi, è difficile individuare la figura che può essere legittimata a entrare in un rapporto familiare riguardo a queste questioni. Certo è una questione un po’ complessa da affidare solo agli operatori scolastici, che hanno percepito che quella della famiglia era una posizione forte. Bisogna capire, non si può colpevolizzare. Ho la sensazione che non hanno fatto in tempo».

E assistenti sociali e mediatori culturali, sono formati per affrontare situazioni simili? «Secondo me ci stiamo sempre più avviando in una fase in cui la formazione richiede cultura dell’intercultura e dell’interreligiosità. Perché, anche se qualche anno fa pensavamo che il sacro, le religioni, sarebbero state assorbite dalla secolarizzazione, dato il moltiplicarsi delle cd appartenenze religiose flebili, in realtà siamo pervasi dal sacro, la religiosità è molto presente. La maggior parte dei conflitti hanno un risvolto non dico religioso ma di “strumentalizzazione e distorto uso delle religioni”. Oggi ci viene richiesta una conoscenza più ampliata: mi sono spesso giunte richieste di potenziare nell’Università di Bari i corsi nella mediazione culturale, per offrire una formazione sulle differenti culture religiose che migrano con gli immigrati e si distinguono per etnie e Paesi di provenienza. L’immigrazione sta portando una varietà di culture intrinseche alla cultura e fede islamiche. E se le comunità italiane hanno preso le distanze (da quanto accaduto a Saman; ndr) ciò ci conferma che, all’interno di una singola cultura, ci sono tantissime sfaccettature e chi deve operare deve iniziare a prepararsi a conoscerle. Ci vuole più conoscenza e formazione specifica in questo settore».

E si può affermare che un padre che è pronto ad assassinare la figlia per motivi religiosi è un radicalizzato? «Sì e ipotizzabile che sia un radicalizzato perché – spiega la studiosa - ha quella radicalizzazione negativa che non rispetta i diritti umani. Non estrinseca una pericolosità assimilabile alla radicalizzione terroristica, ma pur sempre una forma di radicalizzazione. Poi bisogna vedere se sociale, religiosa o etnica, ma lo è. È una forma violenta di idea radicale, se vira a violare diritti come quello alla libertà o addirittura alla vita».

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