Bari, infermieri del Di Venere su tute Covid: «DDL ZAN» contro discriminazioni di genere
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L'EVENTO
Fulvio Colucci
21 Giugno 2020
Tempo permettendo, il sole getterà la sua luce su «pochi intimi» oggi pomeriggio nella cattedrale di San Sabino, mentre si ripeterà il «miracolo dei due rosoni». Solo 30 ragazzi disabili potranno, infatti, assistere all’evento del solstizio d’estate non privo di una sua magia.
Sul sito internet, la diocesi Bari-Bitonto annuncia perentoria: chiesa chiusa in ossequio alle norme contro la diffusione del coronavirus. «Bisogna evitare assembramenti, ci dispiace» taglia corto la nota on line: i giovani, accompagnati dai loro tutori dell’associazione Centro volontari della sofferenza (Csv), godranno del tuffo di luce nel quale si esibisce il sole, proiettando l’ombra del rosone al centro del pavimento della cattedrale. Quell’ombra che diventa luce allaga col suo splendido chiarore, nel consumarsi di un prodigio astronomico, architettonico, estetico - scoperto nel 2005 dal sacrista Michele Cassano - il mosaico nel quale è rappresentato lo stesso rosone dell’antichissimo luogo sacro (costruito tra il XII e il XIII secolo) fino ad abbracciarlo interamente, ad aderire perfettamente, a creare una sorta di «doppio sogno» divino e umano insieme perché, non dimentichiamolo, le grandi chiese medioevali non erano solo luogo della preghiera, ma simbolo anche civile di una comunità.
Luce su luce, per pochi eletti. Luce di luce su pochi eletti, quei giovani che sembreranno come i discepoli nel giorno di Pentecoste, quando lo Spirito Santo discese su di loro, simile a lingue di fuoco (il fuoco, il fuoco del sole che è luce). Per certi versi, sia consentita la provocazione, il «miracolo dei due rosoni», ai tempi della pandemia, avvicina e allontana.
Avvicina a qualcosa di più sacro, intimo e misterioso, concedendo alla sofferenza, alla riflessione, alla preghiera, lo spazio che, diciamolo, una certa spettacolarizzazione secolare e le sue folle avevano quantomeno ridotto. Avvicina alla gioia della luce goduta dai trenta ragazzi testimoni di quell’antico bagliore pronto a rinnovarsi. Allontana, invece, tutti coloro i quali, la maggioranza, avrebbe voluto godere, una volta ancora, del miracolo della prima luce d’estate nel suo taglio «profano». È la dura legge del coronavirus; se ne potrebbe trarre, a proposito di Medioevo, la solita litania di penitenza, pestilenza e castighi divini: troppi peccati (tra questi la new entry, l’assembramento). Tutto troppo facile.
Ci sembra necessario, invece, farsi qualche domanda sul futuro collettivo. Il solstizio in cattedrale era un potentissimo richiamo verso tutti i baresi; occasione, una volta ancora, per illuminare la città vecchia e vestirla di un antico affetto ammirandone le sgargianti vesti di cui si cingono vicoli e archi nella fioritura della bella stagione. Niente più di questo sopravviverà fino a quando non saremo covid-free, come si usa dire con brutto anglicismo: liberi dal covid-19, la malattia; liberi dal coronavirus: liberi dal male. L’idea di una resa e di un cambiamento profondo delle abitudini, l’idea di perdere quel patrimonio umano che solo il calore, nelle relazioni sociali, sa covare, allevare, cementare, terrorizza ora forse più della malattia.
Tanto è vero che si assiste a oscillazioni coincidenti, guarda caso, con quelle stesse che registriamo quando scienziati e medici parlano del virus: più infettivo, meno infettivo; mascherine sì, mascherine no; gel forse, guanti non sia mai! Le indicazioni fanno pendant con le nuove agende degli appuntamenti estivi per cui, a spettacolo del solstizio annullato in cattedrale corrisponde il «tutto esaurito» (200 posti su 2 mila 192) al teatro Petruzzelli, per lo spettacolo del prossimo 30 giugno o il via libera della Regione Puglia al Bifest, il festival del cinema, in programma a fine agosto, rigorosamente all’aperto oppure, al contrario, la paradossale mancata riapertura delle sale di proiezione, confidando nelle care, vecchie, arene.
Il solstizio in cattedrale era impossibile da riproporre in mancanza di distanziamento sociale, dentro e fuori la chiesa. Impensabili i maxi-schermi dei bei tempi andati: ricordate la visita di papa Francesco? Sembra un millennio fa... Gli ottimisti giurano che il prossimo anno si tornerà ad ammirare lo spettacolo del sole e il suo tuffo in equilibrio tra astronomia e calcoli architettonici perché a proteggerci dal coronavirus sarà arrivato, nel frattempo, il vaccino. La sensazione è che bisognerà attendere e che, comunque, i mutamenti di questi giorni, di questi mesi, incideranno profondamente sulle abitudini di tutti. La questione, però, non va affrontata diventando ostaggi della paura di perdere ciò che si aveva, perché magari non tutto era così bello come oggi ci ostiniamo a voler ricordare, facendo a pugni con la verità.
Siamo convinti che non tutto è perduto pur essendo perduta la vita di prima (non sarebbe male se facessimo tesoro della lezione anche se non molti sono i segnali incoraggianti). Questa convinzione - non chiamiamola speranza per auto-assolverci ancora una volta - ha il suo fulcro in una idea precisa. Il coronavirus ci invita a riscoprire la natura, a interrogarci sul nostro destino qui e ora. Se siamo stati in grado di rendere il sole un’opera d’arte, sfruttando il moto della terra e costruendo cattedrali che quell’arte mostrassero, vuol dire che con la natura siamo in grado di convivere depurandoci dal brutto (sì anche l’eccessiva e innaturale spettacolarizzazione, lo show a tutti i costi con l’ossessione di riempire ogni spazio), tornando alla perduta bellezza dell’equilibrio. Le distanze che ora ci angosciano siamo chiamati a riaccorciarle, ma alla luce del sole.
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