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Il brand Gentiloni ultima chance per il leader rimasto solo

 
GIUSEPPE DE TOMASO

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GIUSEPPE DE TOMASO

Matteo Renzi

Matteo Renzi

Domenica 10 Dicembre 2017, 17:07

di GIUSEPPE DE TOMASO

A volte in politica chi vince perde e chi perde vince. I fuoriclasse sono quelli che sanno ribaltare le situazioni critiche trasformando le sconfitte in trampolini di rilancio. Leggendari, nella storia italiana, si sono rivelati i casi del liberale piemontese Giovanni Giolitti (1842-1928) e del dc toscano Amintore Fanfani (1908-1999), bravissimi nel risorgere dalle proprie ceneri. Ma anche altri leader meno titolati dei due big testé menzionati, hanno saputo riemergere da rovinosi naufragi, a conferma che per riuscire bene in politica, bisogna saper leggere, in anticipo, trame ed evoluzioni delle forze in campo. Un po’ come avviene nelle partite di calcio. L’allenatore che fa la differenza non è tanto quello che sceglie bene la formazione iniziale, quanto quello che la sa cambiare nel corso della partita. Costui dimostra di saper leggere la gara, di saper fronteggiare le novità e gli imprevisti capitati all’improvviso.

Matteo Renzi costituisce l’esempio (recente) più clamoroso di chi inizia a vincere quando perde e inizia a perdere quando vince.

Il 12 settembre 2012, nel pieno dell’offensiva rottamatrice contro la nomenklatura piddina, il giovane fiorentino si candida alle primarie del centrosinistra. Partecipano alla contesa Pier Luigi Bersani, Nichi Vendola, Laura Puppato e Bruno Tabacci. Il 25 novembre si vota: Bersani arriva primo con il 44,9% dei consensi, Renzi si classifica secondo con il 35,5%. Nessuno ottiene la maggioranza assoluta, ergo si va al ballottaggio. Risultati: a Bersani il 60,9% dei voti, a Renzi, il 39,1%.

Le cifre non hanno bisogno di particolari esegesi. L’assalto da parte del Rottamatore è fallito. Il segretario in carica resta stabilmente in via del Nazareno. Un altro, al posto di Renzi, avrebbe sventolato la bandiera bianca e si sarebbe rintanato a Pontassieve.

In effetti, per qualche tempo, il sindaco di Firenze scompare dalla circolazione nazionale, tanto che in parecchi azzardano a scommettere sul suo addio ai propositi di conquista, prima del Pd e poi del governo.

Invece quella quarantena post-primarie si rivela più salutare e riossigenante di una lunga vacanza in montagna. Renzi ha perso nelle primarie di coalizione, ma non ha smarrito lo stemma del rinnovamento. Anzi, quella battuta d’arresto contro Bersani gli conferisce nuovo carburante per l’assalto al fortino Pd. E così l’8 settembre 2013 i gazebo lo premiano con il 67,5% di voti. Ora è lui il padrone del Nazareno. Ma siccome al vincitore non fa difetto l’ambizione, eccolo scatenarsi per la sfida più eccitante: espugnare, pure, Palazzo Chigi. Lui ci riesce, a soli 39 anni, battendo per pochi mesi il record di precocità, al vertice governativo, detenuto da Benito Mussolini (1883-1945).

Dunque. Nel 2012-2013 Renzi è più stupefacente di Re Mida, visto che trasforma in oro anche le sconfitte. La sua luna di miele con il Paese raggiunge, per lui, la vetta del piacere elettorale in occasione delle consultazioni europee 2014, quando il Pd sfiora il 41%. L’apoteosi.

Dopo l’exploit europeo, Renzi appare più inamovibile dell’imperatore Augusto (63 avanti Cristo-14 dopo Cristo) dopo la vittoria su Marco Antonio (83-30 avanti Cristo).

Ma proprio dopo il boom Pd su Strasburgo il premier-segretario commette il suo primo grave errore, creando le premesse per il passaggio dal trionfo al tonfo. Forte del 40,8% di voti, Renzi potrebbe fare tutto: chiedere e ottenere le elezioni politiche anticipate; cambiare persino ragione sociale al Pd, sulla falsariga del già vagheggiato Partito della Nazione.
Invece, Renzi preferisce restare fermo, come Bettino Craxi (1934-2000) nel 1991, alla vigilia della «rivoluzione giudiziaria» del 1992.

In verità, proprio fermo Renzi non rimane. Si tuffa, con più baldanza dei Cagnotto, sulla modifica della Carta Costituzionale, personalizzando una campagna elettorale che, invece, andava spersonalizzata come se riguardasse la Nuova Zelanda. E subisce, Renzi, la più cocente delusione della sua vita politica. Può rimediare all’infortunio in due modi: ritirandosi dalla politica, ma con la quasi certezza che presto lo avrebbero richiamato a causa dei probabili contrasti insanabili sulla scelta del suo successore; mollare il Pd e creare, partendo dal 40,89% dei consensi referendari, il partito delle riforme.

Renzi, che sembra più paralizzato di un manichino, opta per la terza strada: riconquistare il Pd sottoponendosi nuovamente alla legittimazione popolare. Primarie. Primarie.

Il popolo dei gazebo gli tributa quasi il 70% dei sì. Sulla carta è un’ovazione che non si discute. Sulla carta. Nei fatti, per Renzi, è l’inizio di un calvario, dato che nel frattempo cominciano le diaspore e le minidiaspore alla destra e alla sinistra del Pd.

Roba che in passato non avrebbe impensierito nessuno. Oggi, però, di fronte a una legge elettorale che premia le coalizioni, non i singoli partiti, anche la defezione di un circolo ricreativo potrebbe risultare più dolorosa (elettoralmente parlando) di una cantonata in diretta tv.

Riavvolgiamo il nastro. Nel 2012, Renzi, che contro Bersani ottiene il 39,1% alle primarie Pd, perde, ma è come se avesse vinto. Renzi, che alle primarie del 30 aprile 2017, ottiene il 69,2% dei voti contro Andrea Orlando e Michele Emiliano, vince, ma è come se avesse perso.

Indubbiamente, pesa come un macigno sull’ex rottamatore il flop al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. Eppure Renzi avrebbe potuto gestire assai meglio quella batosta (cui ha fatto seguito un’infelice gestione del caso banche). Avrebbe dovuto bissare ciò che fece nel 2012 dopo essere stato battuto da Bersani: ri-posizionarsi come l’uomo delle riforme, diventare il Macron italiano a capo di un’altra forza politica. Invece, Renzi ha preferito soprassedere, perdendo forse l’ultima occasione per ripresentarsi da innovatore in lotta contro i conservatori.

Ora il segretario Pd ha una sola chance per allargare l’offerta di coalizione: puntare sul brand Gentiloni, su una lista facente capo al presidente del Consiglio. Una prospettiva interessante (sul piano elettorale), ma forse - agli occhi di Renzi - alquanto rischiosa. Che succederebbe se la prestazione delle liste del premier insidiasse o oscurasse il risultato delle liste Pd selezionate dal segretario? Già, che succederebbe?

Giuseppe De Tomaso
detomaso@gazzettamezzogiorno.it

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