A voler individuare una latitudine si può usare Carmelo Bene: il G20 è finito in quello che una volta era il Sud del Sud dei Santi. E non solo perché Bari, Matera e Brindisi si offrono come assolata scenografia del summit globale, ma soprattutto perché a parlare un linguaggio meridiano è anche l’agenda dettata dalla presidenza italiana tra esigenze nazionali - come la governance dei flussi migratori - e urgenze globali, a cominciare dalla ripresa africana e dal contrasto alla crisi climatica che tanto sta a cuore alla nuova amministrazione americana.
Una scelta saggia per giocarsi una partita casalinga navigando su mari che si conoscono o si vorrebbero conoscere meglio, magari assumendo in merito responsabilità sempre crescenti. Ma è inutile farsi troppe illusioni. Per quanto di importanza capitale, anche i dossier dell’odierno meeting materano sono, per così dire, a Sud di qualcosa. E cioè della grande partita globale che dal G7 inglese in poi sta prendendo forma appuntamento dopo appuntamento.
La Cina è ormai il nuovo «avversario sistemico» di un Occidente non meglio identificato che Washington sta cercando di compattare con qualche fatica perché, ogni tanto, una pecora scappa dall’ovile.
È scappata e rischia di scappare nuovamente l’Italia, ad esempio, che all’epoca del Governo gialloverde fuggì in avanti firmando, prima di tutti, il Memorandum of understanding sulla nuova Via della Seta. Una «macchia» che resta soprattutto dopo che gli Stati Uniti si sono messi a progettarne una alternativa. E poi scappa anche la Germania con Angela Merkel intenzionata a dedicare il proprio tramonto politico alla costruzione di un bilaterale Ue-Russia. L’ultima battaglia della cancelliera. Il francese Emmanuel Macron è d’accordo, l’italiano Mario Draghi pure. Ma la cosa ancora non si fa. La vogliono «solo» loro, riflette qualche analista, quasi Berlino, Parigi e Roma fossero tre turisti in visita a Bruxelles. Evidentemente l’opposizione dei piccoli Paesi Baltici e dell’Olanda, sempre in prima fila quando si tratta di guastare qualcosa, pesa curiosamente di più. Un errore, naturalmente, che la dice lunga su cosa sia oggi la dis-Unione europea. La Merkel, e con lei il suo successore designato alla guida della Cdu, Armin Laschet, hanno ragione nel proporre una prospettiva di dialogo con un gigante, la Russia, troppo in fretta regalato ai cinesi, spesso con scuse pretestuose o argomentazioni ipocrite (qualcuno ricorda i neonazisti ucraini sfilare armati in piazza Maidan?).
Si dice che la Germania faccia tutto questo solo perché primo partner commerciale dei cinesi nonché potenza legata a doppio filo a Mosca da questioni energetiche. Forse è vero, forse il ragionamento tedesco è solo quello di una potenza ottocentesca e mercantile armata di ragione utilitaristica. D’altronde, loro sono «impolitici» come scriveva, a ragione, Thomas Mann. Ma qualunque sia il motivo che li anima, l’idea di un’Europa mediatrice, forza pensante tra le violenze dei giganti, è tutt’altro che sbagliata a meno che non si voglia ridurre il Vecchio Mondo, più di quanto già non lo sia, a un nano (politico) parcheggiato nel giardino del re (americano). E a patto, naturalmente, che Bruxelles non si metta a parlare con la voce dell’ottusità tecno-economica, l’unica «unitaria» che finora ha saputo esibire.
Cosa c’entra tutto questo con Bari e Matera? Lo ha chiarito più volte il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, indicando le parole chiave del summit. Una è Sud, con tutti gli annessi e connessi. L’altra, ancor più decisiva, è «multilateralismo». Solo una corretta declinazione di quest’ultimo intento può rigenerare la funzione di quel «corridoio mediterraneo» in cui siamo immersi. Mai come ora l’intreccio fra temi e luoghi trova un’armonia che non è solo simbolica, ma concreta. Va in scena una grande partita a scacchi. E si gioca a due passi da casa.