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Perché in Italia è impossibile andare a scuola in estate

 
Michele Partipilo

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Michele Partipilo

Bitritto, dipendente di una scuola positivo: istituto annulla attività in presenza

Il virus ha messo a nudo tutti i limiti della sanità e dell’istruzione nel nostro Paese

Sabato 20 Marzo 2021, 15:04

Giovedì è stata celebrata la prima Giornata nazionale per ricordare i morti per Covid. Oltre centomila persone che ci hanno lasciato, spesso senza un fiore né un saluto. Sono le vittime note, i cui nomi compariranno sulle lapidi dei cimiteri e accanto agli alberi che molti Comuni hanno deciso di piantare per ricordarle.

Poi ci sono altre categorie di vittime, persone che non sono morte ma che sono state colpite e trasformate dal malefico contagio. A questa categoria, la più numerosa, apparteniamo un po’ tutti nella misura in cui la nostra vita è mutata. Dal lavoro, che ormai si fa a casa, agli amici che si incontrano solo online, dallo shopping sul web alla bistecca mezza fredda che ti porta a casa un fattorino infreddolito e malpagato, dalla passeggiata che puoi fare solo sotto casa all’amante che non incontri più. Alle trasformazioni esteriori vanno aggiunte quelle profonde, quelle di dentro, che agitano le notti e ci rendono insonni. Tutto questo accende il desiderio di «normalità», cioè la voglia di tornare a quel che eravamo, a uno stile di vita che ci appare lontano e che mai avremmo pensato di dover elevare al rango di paradiso perduto. Eppure va così, giorno dopo giorno, speranza dopo speranza, l’era Covid ci sta trasformando e modellando.

C’è anche un’altra categoria anomala di «vittime», pure molto numerosa, che comprende i più giovani. Bambini, adolescenti, ragazzi che vivono l’esperienza dell’isolamento e della solitudine così difficile da accettare alla loro età. E questo spiega in buona parte i tanti comportamenti irrazionali e pericolosi di cui le cronache raccontano continuamente. Proprio loro ci hanno ricordato un valore dimenticato della scuola: la socialità. La scuola non deve insegnare solo a leggere, scrivere e far di conto, ma deve insegnare anche a vivere nella società, a stare insieme da persone libere in un Paese libero. E lo stesso vale per le università: non sono solo il tempio del sapere, ma anche il luogo dove si impara a lavorare insieme per un risultato, a seguire un metodo, a farsi guidare da un maestro. Ecco tutto questo nell’anno e passa di Covid è venuto meno. C’è stato solo un succedaneo rappresentato dalla cosiddetta didattica a distanza. Lezioni, spiegazioni, interrogazioni, esami, tesi di laurea sempre mediate da uno schermo. Questa roba sta all’istruzione come durante la guerra l’infuso di cicoria stava al caffè.

Le conseguenze non le vedremo subito, appariranno quando bambini, adolescenti e giovani diventeranno adulti. Per alcuni sarà soltanto un ricordo, per altri una ferita aperta, per altri ancora un tratto del carattere trasformato per sempre. Ecco perché la battaglia per tenere aperte scuole e università è stata violenta e divisiva e ha visto l’Italia procedere a fisarmonica, con un continuo apri e chiudi che alla fine ha creato solo confusione e nuovi contagi. Non c’è dubbio infatti che nonostante tutte le possibili precauzioni, la scuola rappresenta – non solo per le ore che si trascorrono all’interno dell’edificio scolastico o dell’università – un formidabile veicolo di trasmissione della malabestia.

Il governo Draghi ora propone di allungare fino ai mesi estivi l’anno scolastico per recuperare un po’ del tempo perduto. Sulla carta è un’ottima soluzione ed è un po’ anche l’uovo di Colombo. Solo che prima di lanciarla forse bisognava aver presente così, a grandi linee, lo stato dei nostri istituti scolastici che d’estate si trasformano in fornaci. Abbiamo edifici climatizzati? Nel Nord Europa ci sono scuole dove si sta confortevolmente in classe a dicembre come ad agosto; in Italia e soprattutto al Sud, c’è appena il riscaldamento invernale e talvolta funziona pure a singhiozzo. Chi frequenta un po’ gli ambienti scolastici ha constatato come già da metà maggio sia una tortura stare in classe, specie se le aule sono esposte al sole. Non c’è finestra aperta che tenga, si suda, entrano gli insetti, non si riesce a seguire la lezione e dopo tre ore così ci si accascia sfiniti sui banchi. E questo vale anche per gli insegnanti, categoria tra le più bistrattate nella fase Covid.

Il caldo estivo non è nemmeno problema solo meridionale, ma riguarda tutta l’Italia. Forse si potrebbe salvare qualche scuola nei paesi di montagna, dove il sole è sempre mitigato dal fresco dei venti e dell’altitudine. Ma da Milano a Bologna, da Torino a Foggia, a Lecce a Trapani, le temperature sono costanti sopra i 30 gradi, con frequenti picchi di 35-38, e unite spesso a un tasso di umidità elevatissimo. Con lo Scirocco che ti appiccica addosso gli abiti e ti svuota di energie non è possibile stare chiusi in classe a studiare o fare esami e non perché non ci sia voglia di farlo o si voglia correre al mare o docenti e presidi non accettino di stravolgere le loro vite. Se i problemi fossero solo questi ultimi sarebbero superabili, invece la questione è più banale ma più difficile e si chiama clima. Se il Generale Inverno fermò le truppe di Napoleone e di Hitler, il Colonnello Estate abbatterà l’esercito di studenti e prof che non sono attrezzati per combatterlo. Del resto proprio la pandemia e il tentativo di adeguare le scuole al mantenimento della distanza di sicurezza hanno mostrato quanto fossero vetuste e malmesse, con aule spesso ricavate nei corridoi e laboratori nei sotterranei.

Con pervicacia il virus ha messo a nudo tutti i limiti della sanità e dell’istruzione nel nostro Paese. Si potrebbe far finta di nulla, oppure si potrebbe imparare la lezione e a ogni Giornata della memoria ricordarsi anche di elencare tutto quello che è stato fatto per scuole e ospedali, al di là dei proclami via social.

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