Così vicino, così distante. È passato esattamente un anno (9 marzo 2020) dal lockdown nazionale che ha cambiato le vite di tutti noi. Distanza, anzi distanziamento, è diventata una parola d’uso quotidiano, piazzata lì a scandire le giornate stravolte da qualcosa che non ti aspettavi. Che nessuno si aspettava. Abitudini congelate, consuetudini sospese, smart working, attività lavorative evaporate.
Quale il bilancio?
All’inizio la tendenza è stata a sottovalutare la nascente pandemia, non se n’è avuta piena consapevolezza. A livello di individui come di Stati. Qualcosa di passeggero e di non particolarmente pericoloso, che riguarda gli altri e non noi, secondo taluni soltanto un’influenza “rinforzata”. E invece no.
Il Coronavirus ha continuato imperterrito la sua opera distruttrice e oggi ha rialzato la testa, con le sue varianti, dopo che in molti – l’estate scorsa – lo davano per sconfitto, annientato, ridotto all’impotenza. E invece eccolo là, tenace, a tenere in scacco il mondo intero e a mietere vittime. Tante vittime. In Italia è stata superata la soglia psicologica delle 100.000 vite spezzate dal Covid-19. Numeri, come quelli dei bollettini quotidiani cui siamo ormai abituati, numeri che possono suscitare indifferenza e che invece celano persone, storie, affetti, esistenze drammaticamente interrotte da qualcosa che mai avremmo immaginato possibile nell’era della globalizzazione e del progresso tecnologico sfrenato.
Quell’essere infinitesimale è lì anche a dirci che non tutto è nelle mani dell’uomo, oggi come ieri.
Lo sforzo enorme degli scienziati ha fatto intraprendere – si spera – la via per ridurre definitivamente nell’angolo quell’organismo microscopico e sbaragliare la pandemia che ha paralizzato il mondo, ne ha mutato le sorti sotto il profilo economico e sociale. Ma occorre tempo. E intanto le ferite restano.
Un anno.
Un tempo relativamente breve ma anche interminabile, con danni all’economia e alle relazioni sociali enormi, che non sappiamo ancora se, come e quando saranno riparati. Il PIL che precipita, le nuove generazioni private dei loro naturali momenti di crescita, gli adulti segnati comunque nella loro vita di relazione.
Ma si può dire che il mondo è veramente cambiato?
All’inizio ad esplodere fu la solidarietà, con cori e inni cantati dai balconi, con concerti improvvisati sulle terrazze, con la speranza che tutto sarebbe in breve tempo finito. E senza il carico sulle spalle di socialità incisa, di condizioni economiche precipitate per i più sfortunati privi di un reddito fisso. Quasi un momento di riflessione, uno stop forzato per rimettere ordine nelle vite di ciascuno, per ritrovarsi con i propri cari. Ma poi anche le convivenze forzate hanno generato talvolta negatività, e la solidarietà ha ceduto il passo agli interessi individuali, espressi anche con rabbia da chi raffronta la propria situazione di precarietà economica con quella di chi è rimasto impermeabile alla crisi da pandemia. La chiusura di cinema e teatri, il “silenziatore” imposto a concerti ed eventi di piazza, hanno il sapore di un impoverimento culturale difficile da colmare e consumato giorno per giorno, lentamente.
Oggi il tema dominante è quello dei vaccini – unica via d’uscita all’aggressione virale – che, però, ha fatto emergere anche le disfunzioni di un sistema sanitario regionalizzato. Disfunzioni che si traducono in ritardi, ritardi che si traducono in perdite di vite umane. Continua ad esserci un po’ di confusione, ipotizzando un differimento nell’inoculazione della seconda dose per accelerare la vaccinazione di massa. Possibilità, a quanto pare, improponibile secondo la scienza.
Vi è poi la mancanza di consapevolezza da parte di alcuni – e non si tratta soltanto di ragazzi – degli effetti del mancato rispetto del divieto di assembramenti e delle altre elementari regole dettate per arginare la pandemia. È questione di superficialità e di egoismo, perché il danno lo si provoca non soltanto a sé stessi ma anche agli altri. Siamo assai distanti, ormai, da quella solidarietà magicamente spuntata giusto un anno fa. Un distanziamento emotivo. Sembra quasi un “si salvi chi può”. Certo, la frustrazione è comprensibile, ma riguarda tutti e non può essere una giustificazione.
L’ultima frontiera, che tra poco si porrà anche da noi, è quella del cd. “passaporto vaccinale” (un certificato digitale che fotografa in tempo reale lo status vaccinale di ciascuno). Appena lanciato dalla Cina, in forma non obbligatoria, dovrebbe consentire di tornare a viaggiare. L’UE sta per presentare una proposta e in Italia alcune Regioni – come la Sardegna – si stanno muovendo in questa direzione. Occorre tuttavia fare i conti con la normativa in tema di privacy (si tratta di dati sensibili) e con la libertà di circolazione costituzionalmente sancita.
Un anno vissuto pericolosamente. E drammaticamente. Con il nemico infido che può essere ovunque, invisibile e letale. Tutti ad aspettare che l’incubo finisca, che si possa tornare a vivere come prima. Ma lo si potrà veramente fare?