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L'analisi
Ennio Triggiani
21 Novembre 2020
Era prevedibile. Il percorso, già non semplice, verso l’approvazione del Recovery Fund, con i 750 miliardi di euro dei quali 209 messi a disposizione dell’Italia, sta trovando un ostacolo nella opposizione di Polonia e Ungheria. Non si tratta di un rifiuto delle risorse finanziarie, anche per loro evidentemente indispensabili, ma è in atto il tentativo di neutralizzare un’importante condizionalità richiesta dal Parlamento europeo per fornire il proprio assenso al Quadro finanziario pluriennale dell’Unione -per la cui approvazione è richiesta nel Consiglio (dei ministri comunitari) l’unanimità- cui è agganciato il Next Generation Eu.
Tale condizionalità, per la cui utilizzazione è invece sufficiente la maggioranza qualificata, dovrebbe consentire la sospensione dell’accesso a tutti i Fondi europei ai Paesi per i quali venga accertata dalla Commissione europea una “violazione del principio dello Stato di diritto”. In altri termini, si lega tale violazione al rischio di incidere gravemente sulla sana gestione finanziaria del bilancio europeo o sulla protezione degli interessi finanziari dell’UE. Tra le ipotesi considerate figurano “mettere in pericolo l’indipendenza della magistratura” e “la libertà di stampa”, “non prevenire, correggere e sanzionare decisioni arbitrarie o illegali da parte delle autorità pubbliche”, nonché “limitare la disponibilità e l’efficacia dei rimedi giuridici, la mancata esecuzione delle sentenze, o limitare le indagini, il perseguimento o la sanzione delle violazioni della legge”.
E un recente sondaggio commissionato dal Parlamento europeo mostra che quasi 8 europei su 10 (77%, in Italia l’81%) vogliono che i fondi UE siano collegati al rispetto dello Stato di diritto e non dovrebbero essere affidati nelle mani di chi governa in dispregio di democrazia e diritti fondamentali.
Ma perché soprattutto l’Europarlamento insiste sulla condizionalità in questione? In realtà dobbiamo ricordare, pur in momenti nei quali le esigenze economiche sono prioritarie, che l’intera costruzione europea si fonda su alcuni valori irrinunciabili, peraltro enunciati all’art. 2 del Trattato sull’Unione e ribaditi dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE, il vero patrimonio morale e spirituale della stessa. Essi sono il “rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze”. E non si tratta di pure enunciazioni formali se solo si pensa che la stessa possibilità di ingresso nell’Unione è subordinata al riconoscimento e all’osservanza di tali valori come determinato dai c.d. criteri di Copenhagen. A suo tempo, Stati importanti nella nostra storia come Spagna, Portogallo e Grecia ebbero il visto d’ingresso solo dopo che i regimi autoritari in essi presenti (da decenni nei primi due, da alcuni anni nel terzo) furono eliminati, per non parlare dei Paesi dell’Est coinvolti nel processo europeo solo dopo il disfacimento dell’Unione sovietica o delle difficoltà per un ulteriore allargamento alla Turchia (ormai del tutto improbabile) e agli Stati balcanici.
Certo, ed è la situazione di cui stiamo parlando, la violazione dei valori descritti può determinarsi anche all’interno di un Paese già membro dell’UE e, in tal caso, è comunque previsto un meccanismo di garanzia (art. 7 del Trattato) che potrebbe giungere fino alla sospensione del diritto di voto del Paese incriminato. Tuttavia, per la relativa constatazione è necessaria l’unanimità di tutti gli altri Stati membri. E qui casca l’asino. E’ sufficiente che almeno per un altro Stato sia prevista analoga imputazione che il meccanismo si blocchi. E del resto è quanto sta attualmente succedendo poiché sia Polonia che Ungheria sono attualmente sottoposti alle procedure di accertamento di tali violazioni (di qui la gigantesca coda di paglia) e si spalleggiano in ogni circostanza, nonostante le pressioni contenute in atti ufficiali non solo della Commissione ma anche di altri organismi internazionali - come l'ONU, l'OSCE e Consiglio d'Europa - nei quali si afferma che la situazione democratica in Polonia e Ungheria si è ampiamente deteriorata.
Per questa ragione, vista la sostanziale inefficacia del sistema di garanzia in questione, il Parlamento europeo ha richiesto un significativo rafforzamento dell’azione comunitaria legandola all’utilizzazione delle risorse finanziarie attraverso un meccanismo che presenta il grande vantaggio di non doversi sottoporre alle forche caudine del voto unanime. Quindi, solo per questa via si era finalmente raggiunto l’accordo sul bilancio fra Consiglio e Parlamento europeo, sbloccato anche grazie agli ulteriori 16 miliardi (su un totale di 1.100) messi in campo per incrementare programmi bandiera come Erasmus, Horizon (ricerca) e Eu4Health (salute), cultura e migranti per un importo complessivo (con le risorse del Next Generation EU) di 1800 miliardi.
Ed allora si torna al problema politico di fondo che investe, in una fase delicatissima della propria storia, il processo d’integrazione europea. Ormai l’ulteriore complessità dell’odierna comunità internazionale pone in maniera indifferibile la necessità di un’Unione europea che non sia più frenata, se non bloccata, dai veti incrociati dei singoli Stati membri. Un suo ruolo incisivo ed efficiente non può che basarsi sul ridimensionamento del modello prevalentemente intergovernativo e sovranista tuttora vigente a favore, almeno per alcuni settori cruciali, di un approccio di tipo federale e comunque basato sulla votazione a maggioranza. Si spera che, anche grazie agli sconvolgimenti prodotti dalla crisi pandemica, la Conferenza sul futuro dell’Europa ponga questo obiettivo come prioritario.
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