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Il duello tra Irpef e Iva per un pugno di Euro

 
Giuseppe de Tomaso

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Giuseppe de Tomaso

Il duello tra Irpef e Iva per un pugno di Euro

Ridurre l’Iva o l’Irpef per stimolare i consumi?

Alleggerire il peso delle tasse su lavoro e imprese è sicuramente preferibile, specie in Italia, terra ad elevata corrività fiscale

Giovedì 25 Giugno 2020, 14:09

Meglio tagliare l’Irpef o tagliare l’Iva? Meglio ridurre le imposte dirette o quelle indirette? Se ne discute da tempo immemorabile, non solo tra politici ed economisti, salvo prendere atto, anno dopo anno, che la pressione fiscale è come l’età degli esseri umani: aumenta sempre. Chissà perché, infatti, ogni proposito di contenimento del bagaglio impositivo si traduce nei fatti in un allargamento del medesimo. La cupidigia dei tassatori non conosce limiti, anche perché è spalmata su vari livelli tematici e territoriali. Un giorno, lo scrittore futurista Italo Tavolato (1889-1963), che pure non era vissuto in un’epoca particolarmente esosa verso i contribuenti, così ebbe a sbottare, metà provocatorio metà divinatorio.  

Leggiamolo: «Dato che la verginità viene valutata in qualità di capitale, è oltremodo strano che il governo non l’abbia ancora tassata». Per fortuna, nessuno ci ha mai pensato, e la cosa è finita lì.

Purtroppo i contribuenti non sono tutti uguali. C’è chi paga troppo e c’è chi paga poco o nulla. Servirebbe un tipo come Karl Marx (1818-1883) che si mettesse alla testa dei contribuenti onesti e ne denunciasse l’insostenibile sfruttamento. Ma, chissà perché, questa prospettiva appare più inverosimile della conversione di Donald Trump a una filosofia politico-esistenziale più moderata.

Né i contribuenti onesti possono salvarsi e salvaguardarsi affidandosi ai marchingegni dell’elusione fiscale. Primo, perché bisognerebbe avere la predisposizione ad aggirare le leggi. Secondo, perché bisognerebbe disporre di molto denaro per ingaggiare i consulenti ad hoc. Terzo, perché bisognerebbe avere idea della (sterminata) letteratura fiscale. Un cattedratico genovese calcolò, parecchi anni addietro, che per essere completamente informati sull’incessante produzione normativa in materia tributaria, sarebbe necessario leggere 60 pagine al giorno di prosa complicata, uno sforzo di decodificazione, di comprensione non inferiore a cinque ore abbondanti. E quel cattedratico si era limitato solo a quantificare i sacrifìci temporali richiesti dalla camaleontica biblioteca fiscale nazionale. Se avesse preso in esame anche la fitta produzione fiscale locale, avrebbe forse gettato la spugna: la cifra finale di ore necessarie all’apprendimento dei continui balzelli avrebbe stroncato pure gli esperti più pazienti.

In ogni caso, il balletto tra tassazione diretta e tassazione indiretta non conosce mai pause, il che - per usare un’espressione oggi di moda - spesso costituisce un’arma di distrazione di massa. Nella discussione, quasi sempre più accesa di una discoteca assordante, si tende però a trascurare un piccolo particolare: l’himalayana montagna dell’evasione italica.

Non prendiamoci in giro. Purtroppo, la massiccia infedeltà fiscale dello Stivale rappresenta una cartolina fissa del paesaggio nazionale, come la Torre di Pisa o il Colosseo. Né contribuisce a ridimensionarla l’ininterrotta fabbrica legislativa di cui sopra. Né costituisce un incentivo, a rientrare nei ranghi, l’insostenibilità delle aliquote più alte. Insomma, tutto congiura perché, nel migliore dei casi, l’esercito dei contribuenti diventi semi-pulito, ma mai del tutto pulito.

Non resta, perciò, che cercare di limitare i danni. Come? Se si tassano prevalentemente i beni, le cose i consumi, si tassano pure gli evasori, che, ovviamente, non possono non spendere. Se, invece, si tassa, prevalentemente, il lavoro, si rischia di fare un mega-regalo agli evasori professionali, assai abili nel nascondersi e nel nascondere.

Si dice. Ma per rilanciare i consumi, per smuovere l’economia, bisogna potare la tassazione indiretta. L’idea non è peregrina, dal momento che ogni forma di prelievo è per natura «tecnicamente» depressiva nei riguardi degli scambi e degli acquisti commerciali. Ma siccome non si possono pretendere capre e cavoli, a un certo punto, quando ci si trova di fronte al duello Irpef-Iva per un pugno di euro, si deve scegliere per forza: conviene tagliare i prelievi diretti o quelli indiretti?

Alleggerire il peso delle tasse su lavoro e imprese è sicuramente preferibile, specie in Italia, terra ad elevata corrività fiscale. Uno, perché - come testè accennato - questa decisione non mortificherebbe i contribuenti leali e non premierebbe i cittadini sleali. Due, perché non si capisce per quale ragione uno sconto sul carico fiscale diretto (Irpef) non provocherebbe conseguenze positive anche sul piano dei consumi. Se la gente si ritrova con più soldi in tasca, non importa come, sarà automaticamente portata a spendere qualcosa in più.

Piuttosto, bisogna aprire gli occhi sui testi di legge e sugli effetti concreti di ogni intervento, di ogni riforma in materia impostiva. Quasi sempre queste misure sfociano in un aumento complessivo della pressione fiscale, cioè in un disincentivo a produrre e a impegnarsi.

Diceva l’abate Ferdinando Galiani (1728-1787), economista raffinato assai, che «le imposte sono i reumi degli stati, le malattie dei vecchi». Aggiorniamo il concetto: se uno stato non fa che discutere sempre di tasse, non ha molto da vivere. Di sicuro non ha un fulgido avvenire davanti a sé.  

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