S’è detto e ripetuto fin dall’inizio di questa terribile epidemia che “nulla sarà più come prima”. E nell’atmosfera surreale di Pasqua, dalla Basilica di San Pietro deserta, Papa Francesco aveva scandito: “Il virus ha cambiato per sempre la nostra vita”. A giudicare dall’euforia e dalla “movida” suscitate delle riaperture, non sembra però che questa consapevolezza sia stata sufficientemente metabolizzata dagli italiani e soprattutto dai più giovani. L’allarme dei sindaci, da Milano a Bari, da Pesaro a Napoli e Palermo, non va assolutamente sottovalutato: normalità fa rima con responsabilità, come qui abbiamo già scritto, ma senza responsabilità rischia di fare rima con mortalità. Uno spritz non vale il virus.
Le stesse proteste più che comprensibili dei commercianti, degli albergatori, dei ristoratori e di tutte le altre categorie più penalizzate dal lockdown, invocano un “ritorno alla normalità” che tuttavia non potrà essere più quella precedente all’arrivo del coronavirus. E chi non lo comprende, oltre a mettere in pericolo se stesso e gli altri, mette a rischio il lavoro, l’economia, il turismo. Sarà, verosimilmente, una “nuova normalità”, diversa nei modi e nelle forme, almeno fino a quando non arriverà e non sarà distribuito il vaccino anti-Covid.
È inutile, allora, recriminare sul passato con tutti i suoi aspetti positivi e negativi. Da una parte, la piena libertà e autonomia di movimento; dall’altra, la frenesia dei viaggi, la smania dei weekend e degli esodi; la congestione del traffico urbano con la conseguente nevrosi e l’inevitabile inquinamento. La “nuova normalità” potrà avere per simbolo la bicicletta o magari il monopattino elettrico. E cambierà la nostra vita, come ha avvertito Bergoglio: dai rapporti interpersonali al lavoro, dallo smart working all’e-commerce, dall’home banking all’e-learning.
In questa prospettiva, non serve a niente pensare a come eravamo prima del coronavirus, ma conviene piuttosto pensare a come saremo dopo. Proviamo, allora, a immaginare il nostro futuro per cominciare ad adattarci, a modificare le nostre abitudini e a cambiare gli stili di vita in un contesto di maggiore sobrietà. Più rapidamente lo faremo, meglio sarà per tutti. Prendiamo, per esempio, il caso dell’automobile. Dopo il crollo delle immatricolazioni in questi mesi di pandemia, si prevede un ritorno massiccio all’uso del mezzo privato, sia in città sia per i trasferimenti extra-urbani: a suggerirlo sono ragioni di prevenzione e di sicurezza sanitaria, per evitare i rischi del sovraffollamento e del contagio. Ma verosimilmente sarà sempre più un’auto ibrida o elettrica, per consumare e inquinare di meno.
Rivaluteremo, com’è già iniziato ad accadere, le botteghe e i negozi di quartiere rispetto ai supermercati e ai grandi centri commerciali. Frequenteremo più volentieri gli spazi dei ristoranti, delle pizzerie e dei bar all’aperto che le piccole trattorie e i locali chiusi. Preferiremo il take away e la consegna a domicilio. Andremo meno al cinema e vedremo più film in tv o sulle piattaforme online, riscopriremo magari le arene estive. Frequenteremo meno gli stadi di calcio e assisteremo sempre più alle partite in televisione.
È questo, in concreto, il senso del termine “resilienza”, dal latino “resilere”, cioè rimbalzare, saltare. Vale a dire la capacità di resistere e reagire alle difficoltà, di riuscire a riprendersi dopo un trauma o un’avversità. Un’arte di vivere a cui noi italiani, e noi meridionali in particolare, siamo abituati da sempre. Non tanto per arrangiarci e tirare a campare, ma piuttosto per ingegnarci e sopravvivere nel modo migliore possibile.
Bisogna avere la forza e il coraggio, dunque, di sostenere l’impatto di una svolta epocale, già innescata dalla necessità di fronteggiare il mutamento climatico e accelerato ora dalla minaccia di questa o di eventuali altre pandemie: attrezzando i nostri sistemi sanitari e produttivi, incrementano la comunicazione elettronica, modificando le reti del trasporto e del commercio. E molti, piaccia o meno, dovranno cambiare lavoro o quantomeno svolgerlo in modalità diverse, con una maggiore flessibilità nei turni, negli orari e nelle funzioni. Nasceranno nuovi mestieri in rapporto alle nuove esigenze della società, con nuove mansioni e nuove figure professionali.
A cavallo tra il secolo scorso e il primo ventennio di questo, abbiamo già vissuto le più grandi accelerazioni nella storia dell’umanità. Basti pensare a strumenti ed elettrodomestici di uso comune, dal telefono al computer, dalla radio al televisore, dal frigorifero alla lavatrice, dal condizionatore d’aria al forno a microonde. Un’evoluzione tecnologica che ha provocato una rivoluzione esistenziale nella vita quotidiana di ciascuno di noi.
All’esordio dell’epidemia, qualcuno pronosticava che saremmo usciti migliori dall’emergenza, più solidali e coesi. Al momento sembra invece che siamo diventati più tesi, più insofferenti, più egoisti e litigiosi. Ma sarebbe un’occasione persa, un’opportunità sprecata, se non riuscissimo a trovare una “nuova normalità” nei rapporti personali e nelle relazioni sociali. Non per guardare indietro, bensì per guardare avanti. Alla fine, se saremo migliori o peggiori, dipenderà dalla capacità di aggiornare i nostri comportamenti, individuali e collettivi, all’insegna dell’equità e della solidarietà.