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Il coraggio di scegliere dopo veti e controveti

 
Francesco Giorgino

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Francesco Giorgino

Sergio Mattarella, presidente della Repubblica italiana

«Occorre arrivare subito alla soluzione di questa crisi semi-parlamentare per approvare in tempo la legge di bilancio, scongiurando così l’aumento dell’Iva e riportando il Paese su un binario di normalità»

Lunedì 26 Agosto 2019, 15:27

Quando giovedì scorso Mattarella ha parlato al termine del primo giro di consultazioni il suo obiettivo era consegnare all’attenzione di partiti e cittadini due concetti molto semplici: rapidità e chiarezza. Sulla «rapidità», le ragioni sono note. Occorre arrivare subito alla soluzione di questa crisi semi-parlamentare per approvare in tempo la legge di bilancio, scongiurando così l’aumento dell’Iva e riportando il Paese su un binario di normalità, uscendo cioè dal terremoto politico di questo agosto. Quanto alla «chiarezza», il discorso si fa più delicato, atteso che le posizioni politiche cambiano di continuo e che le tattiche sembrano avere il sopravvento sulle tecniche e visto che assistiamo ad un continuo rimando di palla da una metà campo all’altro, a veti e contro-veti.

Il Capo dello Stato, al quale va riconosciuto una notevole dose di equilibrio, chiede chiarezza. Fin da quando Salvini ha aperto la crisi, ha sempre rivendicato la centralità di quella logica posta a fondamento della forma di governo tipica di una repubblica parlamentare. Prima di sciogliere le Camere, egli avverte il dovere di verificare se in Parlamento esista o meno una maggioranza politica in grado di far proseguire la legislatura. Non necessariamente una maggioranza diversa da quella che fino ad ora ha espresso il Governo ancora in carica, sia pur per il disbrigo degli affari correnti. Mattarella non spinge a favore di una soluzione in particolare, ma chiede che i partiti (soprattutto quello di maggioranza relativa) arrivino ad una decisione finale.
Il Movimento Cinque Stelle ha recuperato centralità politica.

Si trova davanti ad un bivio: o guarda a sinistra alleandosi con il Pd o guarda a destra riprovando a governare con la Lega. Nelle prossime ore capiremo qualcosa di più, anche se la prima ipotesi è molto più forte della seconda. Certo non è scelta né facile, né indolore. In entrambi i casi. Un sondaggio Winpoll-Sole 24 Ore segnala che solo il 22% degli elettori dei Cinque Stelle vuole il voto in autunno, mentre il 43% punta ad un Governo con il Pd, anche se non pensa che esso possa durare a lungo. Assai più bassa è la percentuale di chi vorrebbe ricucire il rapporto con la Lega, il cui elettorato, come quello di Fratelli d’Italia e di Forza Italia, spinge invece per elezioni anticipate.

In casa Pd, sempre secondo questo sondaggio, il 21% aspira ad elezioni subito, mentre il 62% preferisce un Governo con i pentastellati. Nell’elettorato grillino, come dimostrano i sorprendenti risultati delle europee (che hanno ribaltato i rapporti di forza tra Cinque Stelle e Lega rispetto alle politiche) sono rimasti soprattutto elettori orientati a sinistra, anche se questo dato di fatto non significa automaticamente che essi abbiano un vero feeling con il Pd. Da qui la contraddizione esistente tra i dati appena riportati e i commenti presenti sui social contro i dem, per non parlare di quelle posizioni manifestate esplicitamente anche da parte di alcuni esponenti di spicco del Movimento come Alessandro Di Battista (definitosi molto soddisfatto per le ultime aperture leghiste a Di Maio) e Max Bugani, uno dei quattro soci dell’associazione Rousseau che invita a non aver paura delle urne. Nel Movimento c’è chi evidenzia in queste ore convulse che da un lato occorre pensare alla base, dall’altro bisogna fare di tutto per non spaccare i gruppi parlamentari.

Quello del Senato è certamente più orientato all’intesa con il Pd che ad altre soluzioni. I punti più delicati sono due. C’è il tema della scelta del premier e la decisione del ruolo di Di Maio da un lato e quello della convergenza programmatica con i Dem dall’altro. Sul Presidente del Consiglio il M5S (e non solo il Movimento) insiste su Conte, mentre il Pd propone il nome di Fico che, però, ieri ha fatto sapere che intende dare continuità al proprio ruolo di terza carica dello Stato. Quanto alla convergenza programmatica, si ricordi che nel momento in cui si parla di identità politica di un Governo occorre far riferimento al fatto che l’identità può essere inclusiva o esclusiva. Identità inclusiva quando e se fondata sulle ragioni che uniscono forze politiche divergenti su materie fondamentali come il lavoro, la crescita, gli investimenti, la sicurezza, la sanità, il regionalismo differenziato, le riforme costituzionali ed altro ancora. Identità esclusiva se e quando finalizzata solo ad impedire che altri partiti governino, dando forma ad una sorta di conventio ad excludendum che potrebbe ritornare indietro come un boomerang a chi la professa.

Matteo Renzi, almeno in questo momento, è quasi in una condizione win win. Se il governo giallorosso nascesse potrebbe dire di essere stato il primo a rivendicare l’opportunità di questo schema, anche se fu lui a far saltare la trattativa con i grillini subito dopo le elezioni politiche del 2018. Se invece non nascesse o si tornasse alle urne, il senatore di Rignano potrebbe sempre dar la colpa a chi nel Pd ha frenato l’intesa con il Movimento. Scenario quest’ultimo neutralizzabile qualora tra democratici e pentastellati fosse raggiunta addirittura un’intesa pre-elettorale. Che è un po’ come dire, non ci sono le condizioni per fare un’intesa programmatica in poche ore, ma alle prossime elezioni si potrebbe correre insieme o comunque non l’uno contro l’altro armati. Una mossa che metterebbe lo stesso Renzi nella condizione di svelare una volta per sempre le sue reali intenzioni.

Un no a questa ipotesi (al momento solo di scuola anche per le ragioni espresse in precedenza) farebbe emergere agli occhi dell’elettorato di centrosinistra il vero significato dell’iniziativa messa in campo in questi giorni da Renzi. E cioè: non tanto la volontà di contrastare l’avanzata del centrodestra, quanto una strategia per prendere tempo ed evitare l’assottigliamento della pattuglia di deputati e senatori che fanno capo a lui e che nel caso di elezioni anticipate, stante questa legge elettorale, potrebbe cambiare pelle, diventando espressione diretta del segretario Zingaretti. Il “fattore R”, dunque, resta centrale nella trattativa con i Cinque Stelle per due motivi. Il primo: lo scontro tra il Movimento e il Pd non è certo avvenuto su quanto detto e fatto da Zingaretti, ma sulla stagione che ha visto protagonista Renzi.

Il secondo: specie dalle parti del M5S c’è la paura che con la stessa rapidità con la quale l’ex premier è passato dal no al sì ai Cinque Stelle, egli possa indurre i parlamentari a lui vicini a ritirare la fiducia ad un eventuale esecutivo giallorosso, una volta che nascesse e prendesse il largo. Sullo sfondo (ma neanche più di tanto) c’è sempre il disegno, dai più attribuito a Renzi, della nascita di un nuovo partito o della riconquista della leadership nel Pd. Quanto a Zingaretti, egli ha compattato i democratici, anche se ora è alle prese con il nodo della premiership e con la scelta dei ministri dem di un Esecutivo Conte bis o di un Governo guidato da una personalità terza. La partita è assai complessa. E si gioca tra i partiti, ma anche dentro i partiti. Intanto Mattarella aspetta. Ma attenzione, perché la sua pazienza sta per finire.

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