Mettiamola così. Le posizioni di leader e capicorrente vari sull’ipotesi di voto anticipato sono direttamente legate alle manovre (già iniziate) per la successione a Sergio Mattarella. Il mandato del Capo dello Stato in carica scade il 2 febbraio 2022, cioè fra 30 mesi. Ma, si sa, la corsa per il Colle, la postazione più ambita del Paese, scatta sempre con largo anticipo. Sulla carta dovrebbe essere l’attuale Parlamento, che scadrà nel marzo 2023, a eleggere il futuro presidente della Repubblica. Ma la legislatura in corso non si presenta come un esempio di stabilità. Può cadere da un momento all’altro, riaprendo giochi e rimodulando ambizioni.
In teoria, ma sempre in teoria, a Matteo Salvini le elezioni anticipate dovrebbero andare a genio come il cacio sui maccheroni. Infatti. Non solo il capitano leghista potenzierebbe la propria pattuglia parlamentare, ma si metterebbe nelle condizioni di dover pronunciare la parola decisiva sul nome dell’erede di Mattarella. Per ora Salvini sta continuando a nicchiare di fronte alla tentazione di dare il benservito a deputati e senatori. Probabilmente, il ministro dell’Interno teme che l’apertura ufficiale della crisi di governo non sfoci in nuove votazioni, bensì nella formazione di un nuova maggioranza che escluda la Lega. Il che scompaginerebbe tutti i suoi piani. Di conseguenza, meglio procedere con i piedi di piombo.
Ma c’è una figura che, con il suo nuovo profilo, sta creando le premesse per la sua partecipazione, in prima fila, nella gara per il Colle: Giuseppe Conte. Il presidente del Consiglio è oggi il nome che nelle presidenziali d’aula avrebbe più chance di uscire vincitore. Ce ne sarebbe un altro: Mario Draghi. Ma l’odierna configurazione di Camera e Senato, a cospicuo affollamento populista e anti-europeista, difficilmente stenderebbe tappeti rossi al presidente della Bce, a meno che l’economia italiana ripiombasse in un inferno simil-dantesco. In tal caso, una personalità prestigiosa come Draghi verrebbe invocata dai mercati come il nuovo salvatore della patria.
Conte si sta muovendo con particolare sagacia sul terreno romano, smarcandosi con la disinvoltura di un Dybala in area di rigore. Aveva esordito come paragrillino («Sarò l’avvocato del popolo»). Sta proseguendo come premier contemporaneamente equidistante ed equivicino rispetto ai due azionisti del governo. Il sì al Tav in Piemonte fa felice Salvini e fa infelice Di Maio, mentre le parole di Conte sul caso dei rubli russi avevano incupito Salvini e rallegrato Di Maio.
Insomma. Più passano i giorni, più Conte cerca di caratterizzare in senso istituzionale il suo operato al governo. Una strategia accorta per chi non disdegnerebbe di concorrere per il traguardo più importante dello Stato. La storia dimostra che più è alto l’aplomb istituzionale, più aumentano le opportunità per il raggiungimento dell’obiettivo.
Così come non guasta, anzi è quasi indispensabile, per la scalata al Colle, il pedigree internazionale dell’aspirante papabile. E Conte, dalla presidenza del Consiglio, sta tessendo una rete di relazioni con gli establishment d’oltre frontiera che potrebbe rivelarsi più che preziosa al momento decisivo. Un patrimonio di contatti che potrebbe risultare utilissino anche qualora non fosse questo Parlamento a scegliere il titolare del Quirinale.
Nel giro di un anno, l’avvocato di Volturara, cresciuto a San Giovanni Rotondo e affermatosi a Roma, è passato dallo status di outsider del sistema al rango di insider della Repubblica. Tanto da poter ambire a una meta finora non raggiunta da nessun pugliese. Prima di Conte erano solo due i pugliesi approdati alla direzione del governo: Antonio Salandra (1853-1931) e Aldo Moro (1916-1978). Solo Moro avrebbe potuto, come da pronostico unanime, insediarsi nella dimora che fu dei papi e dei re. Ma una volta (1971) la ritrosia del diretto interessato, una volta (1978) la barbarie terroristica di via Fani e via Caetani, sta di fatto che colui che era ritenuto il predestinato alla suprema magistratura dello Stato non ha potuto rispettare il vaticinio generale.
Ovviamente Conte non è Moro, che era un architetto di costruzioni politiche e un regista di atti inediti sul palcoscenico delle alleanze, ma il premier ha assorbito dalle pagine dell’Italia repubblicana una lezione fondamentale: non è sufficiente dimostrare doti di equilibrio, bisogna anche farsi riconoscere come punto di equilibrio, come régolo indiscusso, specie per gli incarichi di garanzia.
È vero. Oggi dilaga la rumorocrazia, i decibel sono fuori controllo e la moderazione caratteriale è una limitazione, se non una maledizione. Ma ci sono caselle della Repubblica in cui questa degenerazione diventa un handicap insormontabile. Una tra queste caselle è il Quirinale.
Intendiamoci. È prematuro fare scommesse. Ma un fatto sembra assodato. Quasi tutte le mosse dei prossimi mesi saranno in funzione dell’appuntamento presidenziale di inizio 2022.