Per capire il reale significato della manovra economica occorre partire dalla natura ibrida del governo gialloverde. Governo in cui convivono tre approcci diversi, talvolta antitetici fra loro: l’approccio populista e assistenziale del Movimento Cinque Stelle, quello sovranista e più interessato ad investimenti e imprese della Lega e quello più prudente e più europeista dei Ministri Tria e Moavero Milanesi alle prese, però, con il peso sempre più crescente di Paolo Savona.
Bisogna riconoscere che ci vuole una certa abilità nel far sintesi fra impostazioni oggettivamente differenti sia per motivazioni politiche che per ricadute elettorali. Conte, che ha escluso una vertenza con la Ue e che ha ricordato come, nel rispetto della Costituzione, la linea economica debba essere decisa dal Governo, riesce molto bene in questa funzione di mediazione. Funzione che, tuttavia, lo inchioda ad un lavoro meno visibile, anche se non altrettanto importante poiché finalizzato alla condivisione e al superamento dei contrasti interni alla maggioranza. Tria, all’inizio sostenitore di un disavanzo più contenuto, in queste ore (oggi volerà in Lussemburgo per le riunioni di Eurogruppo ed Ecofin) sta provando a spiegare alle istituzioni europee e soprattutto ai mercati perché la manovra varata dal Governo non deve destare preoccupazione. Egli sta mettendo sul tavolo una serie di argomenti. Il primo: nonostante l’obiettivo del deficit al 2,4% per i prossimi tre anni, restano prioritari equilibrio di bilancio e sostenibilità del debito pubblico che, secondo le previsioni del Mef, dovrebbe effettivamente scendere a partire dal 2019. Il secondo: il rapporto deficit-Pil per il prossimo anno non poteva essere inferiore al 2%, considerando la previsione di crescita allo 0,9% (e non più all’1,4%) e la volontà dell’esecutivo di congelare l’aumento dell’Iva. Una manovra con un deficit del 2% non avrebbe permesso, dunque, nemmeno di avviare le riforme promesse agli elettori da M5S e Lega e cioè reddito di cittadinanza, flat tax e riforma della Fornero. Il terzo è quello della spending review, mentre il quarto argomento, il più importante, è che con il deficit al 2,4% si riesce ad avviare un piano di investimenti straordinari, indispensabile per garantire crescita e occupazione. Il Governo pensa nel prossimo triennio a circa 15 miliardi di investimenti pubblici. Una buona notizia, a patto che non rimanga un semplice intendimento e che davvero si riesca ad innescare un meccanismo virtuoso per l’economia del nostro Paese. Agli investimenti pubblici si assoceranno anche quelli privati. Importante è, nel contempo, il ricorso ad una diminuzione della pressione fiscale per imprese e partite Iva (anche se non ancora per le persone). Il percorso è lungo, come ha ricordato il prudente sottosegretario alla presidenza del consiglio Giorgetti, spegnendo i facili entusiasmi della pattuglia governativa pentastellata e sottolineando che la settimana scorsa si è concluso il primo tempo, ma che ora inizia il secondo, al termine del quale sarà più chiaro chi ha vinto, chi ha perso e chi ha solamente pareggiato in questa partita complessa.
Comunicazione - Si innesca qui la questione più volte affrontata sulle colonne di questo quotidiano della trasformazione della politica (anche di quella economica) in comunicazione e marketing elettorale. L’esultanza di Di Maio sul balcone di Palazzo Chigi si spiega soprattutto per questa ragione. Esternalizzare una vittoria che ancora non è stata conseguita del tutto e che deve fare i conti con le reazioni dei mercati (oggi capiremo se la situazione migliorerà o peggiorerà rispetto a venerdì scorso) è una mossa spiegabile soprattutto con le esigenze di comunicazione di ciò che lo stesso premier ha definito come “vero e proprio manifesto politico”. A tal proposito, ci si chiede se il reddito e la pensione di cittadinanza possano essere misure di stabilizzazione sociale e di equità e nel contempo anche soluzioni di politica attiva del lavoro? Difficile dirlo. Quel che è certo è che senza una riduzione dei disoccupati e inoccupati nessun effetto positivo sarà possibile a medio e lungo termine. C’è il rischio, anzi, che si coltivi il convincimento che nel novero dei tanti diritti individuali maturati in questi anni a fronte dei troppo pochi doveri rientri anche la pretesa che lo Stato “mantenga” non solo chi non può lavorare, ma anche chi non vuol lavorare. Una dinamica rilevante oltre che dal punto di visto economico, anche da quello psicologico.
Non è solo un problema di reinterpretazione in salsa grillina delle politiche keynesiane e della volontà di rilanciare i consumi, quanto di far fronte alle conseguenze per quei soggetti che potrebbero coltivare l’equivoco che il paracadute statale sia l’unica prospettiva della propria esistenza. La valenza del messaggio di questa parte della manovra va al di là dei sei milioni di poveri i cui redditi verranno portati a quasi ottocento euro al mese. Non va sottovalutato, infatti, l’aumento delle divisioni fra coloro che hanno redditi molto bassi e coloro che, pur vivendo in difficoltà economiche, non hanno diritto alla misura in oggetto. Anche questo è un rischio dell’assistenzialismo “a debito”. Un discorso che vale soprattutto nel Mezzogiorno. Così come non va sottovalutata la prospettiva di un aumento del divario fra la rappresentazione di un Nord produttivo e quella di un Sud parassita. Non è un mistero, infatti, che l’assistenzialismo grillino mal si concilia con la logica decisionale delle imprese, specie di quelle del Nord, naturali interlocutrici della Lega. Significativa è stata l’uscita pubblica a Vicenza del presidente di Confindustria Boccia a favore del partito di Salvini verso cui vengono nutrite “grandi aspettative”. La chiave di volta è, anche in questo caso, quella della speranza che la spesa in deficit porti a maggiore crescita ed occupazione e, quindi, anche ad una riduzione del debito.
Ricadute - Non trascurabili sono le ricadute politiche di questo ragionamento. A ben vedere, è il Pd (diviso anche nel giudizio sulla manovra) ad essere il partito più penalizzato da tale situazione. Molti elettori di sinistra contestano ai democratici di essere stati negli ultimi anni molto più attenti ai poteri forti che ai ceti sociali deboli, le cui istanze riescono oggi ad essere intercettate soprattutto dal M5S al Sud e dalla Lega al Nord. E ciò mentre Confindustria, soprattutto grazie ai buoni rapporti di Giorgetti con Boccia, sta appunto facendo aperture di credito nei confronti del Carroccio, con l’intento di creare una forma di interlocuzione operosa e finalizzata alla realizzazione di quelle riforme che le imprese chiedono da tempo per allinearsi a quanto sta già avvenendo in Cina, Stati Uniti, Germania e Francia. Anche questo è un segno del cambiamento.