La mattina si consuma aspettando Godot. Aspettando qualcuno (un vigile, un poliziotto, un emissario del Ministero, un granatiere, la guardia svizzera) che venga a dire: «Voi da qui ve ne dovete andare e basta». Invece, nel palazzo a rischio crollo dove a Bari, da mesi, si tenta di mandare avanti la giustizia penale, le attività della Procura procedono regolarmente. Tutti gli altri sono impegnati a mettere in atto l’ordinanza del Comune che proroga lo sgombero e limita ulteriormente gli spazi a disposizione (sì, proprio l'ordinanza per la quale il sindaco Decaro si è preso l'accusa di «irresponsabile» dal ministro Bonafede) mentre i magistrati del Tribunale e il personale amministrativo traslocano altrove.
L’ufficio del pubblico ministero, viceversa, rimane nelle sue stanze, come il famoso soldato giapponese rimasto a combattere a guerra finita. D’altronde il procuratore e i suoi sostituti lo hanno detto in tutte le lingue: noi in una sede di fortuna come quella individuata temporaneamente dal Ministero non possiamo andarci, è troppo piccola, ci costringe a dividere le stanze e in queste condizioni non è possibile né interrogare un teste né parlare con un avvocato né fare qualsiasi atto con la riservatezza necessaria.
Da oggi, dunque, accadono cose davvero paradossali per la giustizia penale barese, a cominciare dalla frammentazione delle sedi, ben 8 oramai, divise tra Bari, Bitonto e Modugno. C'è poi la singolare situazione dei pm il cui personale di segreteria - tutti amministrativi - da ieri è in servizio nella famigerata angustissima sede alternativa, tanto da doversi organizzare in doppi turni. I pm in un palazzo, le loro cancellerie in un altro. Ma è possibile?
Non a caso abbiamo scomodato Samuel Beckett, il più grande drammaturgo dell’assurdo. Perché a raccontarle una dopo l’altra, le pagine di questa storia, viene alla fine da esclamare «Ma no, non è possibile!». Un palazzo di giustizia che cade a pezzi, crepe ad ogni piano, ascensori rotti, allagamenti, bagni inagibili, e nessuno fa niente. Poi, dopo anni e anni, esplode l'emergenza come se la si scoprisse all’improvviso (ma come: ci sono gli ascensori rotti, gli allagamenti e le crepe?). Quindi si dichiara ufficialmente l’inagibilità dell’immobile e a qualcuno viene in mente di trasferire temporaneamente l’attività penale in una tendopoli. Ma arriva il ministro (il neoministro pentastellato Alfonso Bonafede), dice che quelle tende sono una vergogna e annuncia che risolverà la questione in poco tempo. Avvia un’indagine di mercato, sceglie una sede dove trasferire provvisoriamente magistrati, amministrativi, polizia giudiziaria & affini, ma dopo circa 24 ore si scopre che la sede non è idonea. E si blocca tutto. Nel frattempo il conto allo rovescia scorre, il 31 agosto bisogna liberare il palazzo inagibile e i pubblici ministeri lanciano un appello disperato sull’impossibilità a mandare avanti indagini e processi se costretti al trasloco in un edificio minuscolo. Ma nessuno li ascolta. Allora il sindaco di Bari, non senza traumi nelle relazioni istituzionali, decide di prorogare lo sgombero del palazzo a rischio crollo, però il Ministero non è d'accordo e fa sapere (attraverso un’intervista alla Gazzetta e un annuncio sui social) che nell’edificio inagibile non può rimanere nemmeno una mosca. Ma come è stato possibile avvitarsi in questo cul de sac? Chi ha consentito di trasformare un diritto in un’emergenza? Come si fa a paralizzare l’attività penale in un distretto di Corte d’Appello diviso tra i 16 clan baresi e la sanguinaria mafia di Capitanata?
Torniamo all’emergenza. Quella che Bonafede nega. Il Guardasigilli ha spiegato subito che non avrebbe riconosciuto lo stato di emergenza e dunque non sarebbe ricorso alle procedure straordinarie per risolvere il caso-Bari. Ma la strada «ordinaria» ha dimostrato a tutti che non solo il problema non è risolto ma se possibile si è perfino aggravato, anche (profilo pericolosissimo) nel dialogo tra poteri dello Stato. Si può chiedere a un ministro, a un governo, a un qualsiasi politico, se in caso di errore sia disposto a tornare indietro? O l’ostentazione muscolare è diventata l’unico lessico istituzionale?
Nel frattempo la giustizia penale barese affronta la sua crisi più devastante. Migliaia e migliaia di notifiche in attesa, fascicoli sballottati da un palazzo all’altro, prescrizioni in agguato, indagini ingolfate, processi fermi, avvocatura in ginocchio. A soffrire è il diritto ma anche la società, l’economia, il sistema delle regole. Su questa strada, la giustizia rischia di scomparire lasciando il posto al caos, alla tenebra senza leggi.