Immaginate Londra, poi il Salento. Mescolateli con Kingston, Dakar e New York. Il risultato è «One Blood», il nuovo album dei Tarantola, pubblicato da The Sound of Everything e distribuito da The Orchard. Un viaggio sonoro, una dichiarazione d’identità, una danza collettiva tra culture, storie e battiti diversi che si riconoscono nello stesso sangue. Dopo i quattro singoli lanciati tra primavera ed estate, la band guidata da Mauro Lacandia presenta ora l’intero progetto: undici tracce che intrecciano reggae roots, dub, dancehall, soul, taranta e modern reggae, con la partecipazione di artisti internazionali come Daddy Freddy, Awa Fall, Papa Leu, Sabaman, i Brass Brothers e molti altri.
Il messaggio è chiaro sin dal titolo: One Blood ci ricorda che, nonostante differenze linguistiche, geografiche o culturali, siamo tutti uniti da una sola, identica umanità. Il sangue che scorre è lo stesso. E la musica, per i Tarantola, è lo strumento più potente per ricordarcelo. Mauro Lacandia risponde alle domande della «Gazzetta».
Il titolo ha un messaggio molto potente: cosa vi ha ispirato a sceglierlo?
«"One Blood" nasce da un percorso naturale, quasi inevitabile, per chi vive in una città multietnica come Londra. In un mondo che sembra volerci separare, io cerco sempre cosa ci unisce. Attraverso i racconti di amici, conoscenti e anche sconosciuti, ho scoperto storie che – pur con origini diverse – si somigliano moltissimo. Il sangue diventa così un simbolo: qualcosa che ci accomuna tutti, al di là delle culture. Se iniziassimo a riconoscere ciò che abbiamo in comune, il nostro desiderio di conflitto si ridurrebbe drasticamente».
L’album è un mix di influenze musicali diverse: come siete riusciti a fonderle in modo coerente?
«È stato un processo naturale, dettato dall’amore per generi diversi e dalla ricchezza culturale dei musicisti che fanno parte del progetto. Tarantola è un collettivo: ogni componente porta con sé influenze e background personali. E io non ho mai voluto piegarmi alle regole di mercato. Etichettare la nostra musica sarebbe limitarla: noi preferiamo lasciare che si esprima liberamente, anche a costo di sfidare le logiche commerciali».
Avete collaborato con molti artisti come Daddy Freddy, Awa Fall, e Papa Leu...
«Ogni collaborazione è stata diversa. Alcune sono nate a distanza, altre in studio. Quella con Papa Leu è stata forse la più ricca a livello umano e artistico: un artista straordinario, umile, creativo, che rappresenta un ponte naturale tra Londra e il Salento per noi. La voce di Daddy Freddy, ad esempio, ha dato una spinta potentissima al brano dove si fondono sonorità giamaicane e pizzica».
Parlate anche di resistenza sociale: quanto è importante per voi che la musica abbia anche un ruolo politico?
«È fondamentale. In momenti come questo, la musica deve essere anche politica, ma nel senso più concreto del termine: deve parlare di vita reale. Siamo tutti stanchi di discorsi vuoti e slogan incomprensibili. L’arte può e deve essere uno sfogo del popolo, un modo per dire cose scomode ma vere. Gli artisti più affermati dovrebbero farlo ancora di più: hanno il potere di far riflettere e accendere discussioni importanti. Eppure, troppo spesso evitano di esporsi».
Il brano «Capufriska» è un inno al Salento e alla gioia di vivere: quanto pesa la vostra terra d’origine nell’ispirazione artistica della band?
«Tantissimo. Essendo io l’autore della maggior parte dei brani, spesso in collaborazione con Stefano (Sabaman), anche lui salentino, è inevitabile che sia al centro del nostro immaginario. La lingua, le tradizioni, le leggende, la musica popolare: tutto questo è parte viva della nostra identità artistica».
«One Blood» è anche un invito a superare pregiudizi e discriminazioni. Cosa vi augurate che chi ascolta l’album porti con sé dopo averlo sentito?
«Mi piacerebbe che chi ascolta si rendesse conto che parlare di discriminazione, identità, convivenza non è noioso né fuori moda. Vorrei che capisse quanto le culture diverse siano come colori su una tela: rendono il mondo più bello e affascinante. Ogni storia merita di essere ascoltata. È nello scambio che scopriamo quanto, in fondo, siamo simili».