Arrivo a Kyoto da Tokyo in shinkansen, il treno veloce che fugge a bucare il paesaggio.
La stazione è gonfia di luci; un enorme volta se ne sta in alto; scale mobili atterrano al pianterreno. I capolinea degli autobus sono poco fuori, di lato. Mi sono studiato il percorso: ho come meta il Ryoan-ji, con il suo giardino zen. Prima di lasciare il Giappone potrò mai farne a meno, mi sono detto.
L’autobus si affolla via via: studenti, studentesse, donne con la spesa, anziani signori seduti in fondo. Non vedo esseri simili a me, cioè cercatori sperduti di luoghi in vista di tempo. Mi sembrano tutti cittadini ignari. E d’altronde le strade si fanno periferiche; si diradano i negozi; i semafori danno il via con circospezione; scendono e salgono passeggeri senza occhi.
Avrò sbagliato, mi dico. Chissà dove mi porterà quest’autobus? Non ho uso di lingua, devo affidarmi al percorso, da qualche parte prima o poi faremo tappa. La strada disegna delle curve, ai bordi comincia ad occhieggiare la vegetazione. L’autobus si fa meno carico; sale anche qualche persona che sembra dare l’idea di essere in cerca. E come d’incanto arriva la fermata giusta.
Scendo; sono all’inizio di un sentiero; le indicazioni si fanno chiare. Respiro. Laggiù c’è un ingresso, un vestibolo di legno dove lasciare le scarpe. Ho visto delle foto; ho letto dei racconti; dunque mi aspetto qualcosa. E infatti, andando a piedi scalzi, riconosco frammenti di sguardo già visionato.
Succede però che all’arrivo, dinanzi al giardino vero e proprio, i ricordi posticci svaniscono. Mentre osservo sale il silenzio, punteggiato da piccoli scorrimenti d’acque. Si prende il campo visivo un campo fiorito di ghiaia: bianco, forse un rettangolo, chiuso da mura screziate di marrone. La ghiaia è pettinata longitudinalmente. L’occhio segue le linee e affonda come in un mare vasto, oceanico, a murmure spento.
Al centro affiorano cinque isole; tutt’attorno la ghiaia segue a cerchio il loro cerchio. Sembrano sombreri di pietra; poca vegetazione gli cresce sopra, come capelli ribelli. Cinque isole ad arcipelago; fanno dialogo mutangolo. Non sono solo; ma è come se lo fossi.
Da minuti infermi ho preso una posizione seduta. Lascio che il tempo si depositi negli occhi. In lontananza l’acqua scorre e a volte fa un accento alto come se toccasse un tasto diesis di pianoforte. Mi si rallenta il battito cardiaco; respiro sotto la camicia in incognito. Lascio da parte le ipotesi della ragione; i perimetri a centimetri; guardo fuori dagli occhi. Le cime degli alberi si fanno vive dietro ai mattoni marroni. Ondulano nell’aria; staccano colori da non dire. Il ritmo del treno stracciapaesaggio si è inabissato. La velocità dell’arrivo, la stazione gonfia come un otre di cromie allarmanti, l’autobus titubante sono esserini smarriti tra i fantasmi. Il tempo adesso ha la parvenza dell’immobilità; eppure è anche meridiana lieve e concentrica.
Capisco quanto importante sia l’arte del miniaturizzare; di tenere un mondo intero in un mano, come in un haiku. Ma poco so spiegarlo. Addirittura non voglio. Il pomeriggio si fa strada tra i passanti. Sono tornato a Kyoto. Vestiti in abiti tradizionali giovani coppie si danno la mano, guardano negozi, spariscono in tempietti rossi. Un grande padiglione annuncia a saliscendi il parco della città. Il passo mi ci conduce, ignaro di ritorni in agguato. Gli alberi a tratti sembrano danzare. Si accendono le luci. Edifici e tempietti fanno capolino nella vegetazione.
Chissà come mi trovo in una sala da tè. Ordino un bancha; ha un sapore di prato appena falciato. In fondo alla tazza smaltata lascia tracce verdoline; sembrano la capelvenere che si trova in prossimità dei pozzi. Dire cosa sia la cultura zen abbisognerebbe di studi che non possiedo. Quel che so mentre bevo e il Ryoan-ji agisce come un contagocce estatico risiede in quel che sento.
Posso dirlo? È giusto farlo? O invece è necessario trovare immagini-sensazioni, avamposti percettivi, compagni di similitudini. Mi viene in soccorso il poeta: «È la grata sorpresa di chi tenta/ di rinchiudere il tutto in qualche niente/ che si rivela solo perché si sente».