Come accade per tutte le tifoserie di calcio, nella memoria collettiva del tifo romanista esistono episodi scolpiti nella pietra, indimenticabili, in grado di sopravvivere di generazione in generazione. Gioie e dolori, naturalmente. Per le prime: i festeggiamenti dopo lo scudetto del 2001, seguiti alla vittoria in casa contro il Parma, o il più recente trionfo in Conference League.
E invece per i secondi, quei dolori non meno importanti nella creazione della mitologia particolare di ogni club, ci sono due momenti, ormai lontani, la cui semplice evocazione porta con sé fitte di sofferenza diffusa all’anima. Tutti e due avvenuti all’Olimpico, peraltro, nel volgere di pochi anni. La sconfitta ai rigori nella finalissima di Coppa dei Campioni contro il Liverpool, nel 1984. E due anni più tardi un’altra sconfitta casalinga, peraltro decisamente più incomprensibile e per questo difficile da digerire.
È il 20 aprile 1986 e all’Olimpico va in scena per la penultima di campionato Roma-Lecce, un match che nel gergo dei cronisti sportivi si definisce «testacoda». I salentini, guidati da Eugenio Fascetti, sono già condannati alla retrocessione dopo aver gustato per la prima volta nella loro storia la massima categoria, nonostante l’ingaggio del bomber argentino Pedro Pasculli, di lì a poco campione del mondo con l’Argentina di Maradona. La Roma, d’altro canto, è prima in classifica in coabitazione con la Juventus di Trapattoni e Platini. Allenata dal tecnico svedese Sven Goran Eriksson, la squadra giallorossa ha culminato una splendida rimonta agganciando i bianconeri per un sorprendente sprint a due turni dalla fine.
Il tifo giallorosso, in verità, facile all’euforia, ha già dato via ai festeggiamenti. Il calendario sorride: mal che vada sarà spareggio. Prima della partita contro il Lecce, le telecamere immortalano i dirigenti romanisti, con il presidente Dino Viola in testa, mentre svolgono una sorta di giro d’onore. Lo stesso Viola che aveva promesso a Eriksson una Ferrari in caso di vittoria tricolore.
Per i 90mila spettatori dell’Olimpico in uno stadio tutto giallorosso, considerando anche i colori sociali del Lecce, tuttavia, la giornata assume via via i contorni dello psicodramma. Nonostante il vantaggio con gol di Ciccio Graziani dopo soli sette minuti, la Roma subisce una incredibile, pazzesca rimonta, finendo il primo tempo sotto di un gol per un rigore trasformato dall’argentino Juan Alberto Barbas, idolo della curva salentina. All’inizio della ripresa ancora Barbas segna il terzo gol e a nulla serve la rete di Pruzzo, a dieci minuti dalla fine, se non per alimentare ulteriori rimpianti.
Fascetti, di lì a poco tecnico della Lazio e più avanti ancora in Puglia questa volta alla guida del Bari, ha stroncato i sogni tricolore della Roma. Una curiosità: qualcuno adombrò per quella folle partita lo spettro della combine, e a presentare un esposto in procura ci pensò Mario Appignani, meglio noto come Cavallo Pazzo, «disturbatore» di Pippo Baudo a Sanremo.
Alle voci di combine, alle quali non ci fu alcun seguito, Eriksson non ha mai voluto credere. «Avrei dovuto portare a Nord la squadra, sottrarla alla città, a quel senso di festa per aver già vinto lo scudetto», disse tempo dopo. E il destino ha voluto che infine il tecnico svedese abbia sì vinto uno scudetto a Roma, ma alla guida della Lazio, a quindici anni da quella domenica da incubo contro il Lecce. Una partita che Eriksson, per sua ammissione, non ha mai più rivisto, così come non vide il premio promesso dal suo presidente: «Viola mi chiamò il lunedì: “Mister, dentro la sua testa deve sapere che lei, personalmente, ha vinto lo scudetto. Solo che la Ferrari non gliela regalo”».