Stretto tra il lungotevere - all’altezza dell’Isola Tiberina - e l’antico teatro di Marcello, in una superficie di circa tre ettari si distende uno dei luoghi più affascinanti di Roma, un intrico di stradine che conserva memoria, bellezza e il peso indicibile della tragedia. Il ghetto ebraico di Roma, il secondo più antico al mondo dopo quello di Venezia, che lo anticipa di quarant’anni, è oggi un’area dove poter uscire la sera, mangiare pietanze kosher, frequentare gallerie d’arte o ammirare la suggestiva fontana delle tartarughe, opera cinquecentesca di Giacomo Della Porta, e ancora contemplare le magnifiche rovine del portico d’Ottavia, il complesso che l’imperatore Ottaviano Augusto dedicò alla sorella.
Ottant’anni fa, tuttavia, la meraviglia finì in una voragine, inghiottendo le vite di centinaia di persone, in un episodio che resta una delle ferite insanabili del Novecento italiano. Era la notte del 16 ottobre 1943, quando una retata condotta da reparti delle SS e della polizia nazista arrestarono 1259 tra uomini, donne e bambini, per l’unica ragione di appartenere alla comunità ebraica. Soltanto pochi giorni prima il comandante della Gestapo a Roma, Herbert Kappler, aveva assicurato incolumità in cambio di 50 chilogrammi d’oro. Le persone arrestate vennero quasi tutte deportate al campo di sterminio di Auschwitz, e soltanto 16 tornarono vive alla fine del conflitto mondiale.
Per queste ragioni, per la presenza di monumenti, l’intreccio di antico e contemporaneo, e per l’evidente peso della memoria del rastrellamento, passeggiare nel ghetto ebraico di Roma non lascia indifferenti, in un continuo faccia a faccia con la storia, la cultura e l’arte.
Sul pavimento sono installate diverse pietre d’inciampo, i sampietrini in ottone che ricordano le vittime della Shoah.
Qui nel ghetto sorgono la sede dell’Enciclopedia italiana, nel palazzo che fu acquistato da Giovanni Treccani, e il Centro studi americani, nell’imponente Palazzo Mattei di Giove.
Proprio di fronte al Centro studi compare ancora la storia in versione tragica, nella forma della lapide che commemora il ritrovamento del corpo senza vita di Aldo Moro: in via Michelangelo Caetani le Brigate rosse posteggiarono la Renault rossa con il cadavere dello statista italiano.
E ancora nelle vicinanze, spostandoci leggermente al di fuori del ghetto ebraico, in via delle Botteghe oscure ecco l’ingresso della Crypta Balbi, un complesso monumentale pari a un intero isolato che contiene tracce di età romana, medioevale, rinascimentale e settecentesca.
Se il ghetto di Roma così come il più antico ghetto veneziano conservano gran parte della memoria ebraico-italiana, altre città serbano il passaggio e la presenza di questa comunità. A Venosa è possibile visitare il complesso sepolcrale, un sito che risale ai secoli IV-VI dopo Cristo e che presenta ricche decorazioni ad affresco caratterizzate da simboli della tradizione ebraica, come la menorah, il lulav e lo shofar. A Trani, nel quartiere ebraico, sorge la sinagoga Scolanova; nella città pugliese il numero di sinagoghe arrivò a quattro, prima che la comunità venisse definitivamente espulsa, nel XVI secolo. Allora la sinagoga venne trasformata in una chiesa, «Santa Maria di Scolanova»; nel 2005 è tornata all’uso originario, ed è unica al mondo avendo nello stesso edificio una campana e la stella di Davide.