Qualche giorno fa mi son ritrovato a passeggiare in uno dei miei angoli preferiti di Roma, diciamo tra quelli più insoliti, tra la via Casalina e piazza di Porta Maggiore. Il carattere insolito è dato da un paesaggio che contiene elementi distinti, giustapposti come in un patchwork caotico. Li metto in fila: i binari di una ferrovia; villini bassi; palazzoni anni Cinquanta, destinati un tempo perlopiù ai ferrovieri; i piccoli ponti sulla ferrovia; un giardino piuttosto esteso; muri in mattone dipinti a murales; e poi, a sovrastare tutto questo, un meraviglioso tratto dell’acquedotto romano, l’acquedotto Felice, costruzione originaria del III secolo dopo Cristo restaurata e rimessa in funzione da papa Sisto V in pieno Rinascimento. Un tempo vi erano ammassate baracche e costruzioni di fortuna. E ancora oggi sotto le arcate ci sono artigiani e botteghe di meccanici e restauratori.
Durante la mia passeggiata, in uno degli spiazzi verdi che digradano intorno all’acquedotto, ho notato alcuni alberi meravigliosamente fioriti. Non occorre lo sguardo di un botanico esperto per capire quali piante fossero: ciliegi, bellissimi, rigogliosi. Soltanto che la mia passeggiata è avvenuta a metà febbraio, a un mese abbondante di anticipo dalla fioritura così come è sempre stata. Li ho ammirati e fotografati, sotto il cielo azzurro; ma con l’incombenza, sulla bellezza della visione, di una chiara inquietudine.
I segnali dell’anomalia climatica non li ho certo scoperti passeggiando sotto l’acquedotto Felice: il fatto è che sono sempre più visibili, dilaganti anche per l’occhio comune e non soltanto per gli agricoltori costretti a fare conti sempre più salati; il conto della terra «impazzita», non fosse che l’impazzimento contiene una massiccia dose di contributo umano. Come se la natura avesse iniziato a protestare, nel mutamento. Intorno al capodanno, nelle campagne pugliesi si notavano già le prime mimose. Ho visto anche quelle.
Adesso leggo che per Coldiretti la mancanza di piogge ha riprodotto anche qui ciliegi in fiore, oltre a carote variegate, piselli, cavoli rossi e le prime fave. Sempre secondo Coldiretti, a causa della siccità «nel 2022 in Puglia è andato perso un terzo delle produzioni da oltre il 50% delle olive al 35% della frutta e della verdura, del grano, delle foraggere per l’alimentazione del bestiame, del miele, con gravi danni anche sugli allevamenti di cozze e ostriche».
Ogni area del pianeta è sottoposta alle azioni del clima in movimento, ma scoprirlo sotto i nostri occhi dovrebbe innescare un meccanismo di difesa, in modalità da urgentissima corsa ai ripari, se mai è possibile riparare organismi così complessi. Sappiamo cosa sta accadendo sulle cime delle Alpi, con la mancanza di neve; e lo scorso autunno il Tevere era in secca come mai l’ho visto. Il prossimo potrebbe essere peggio.
A gennaio scorso la città di Roma ha promosso finalmente una conferenza per ragionare su un piano di adattamento ai cambiamenti climatici. Nella Capitale la temperatura media è aumentata di due gradi in cinquant’anni e qui si registra il numero più alto in Italia di eventi estremi. Ridurre il cemento, aumentare le aree verdi, mettere in sicurezza il suolo, razionalizzare l’uso dell’acqua, annullare gli sprechi. Fare presto, ovunque, prima che sia troppo tardi, anche per tornare ad ammirare i ciliegi in fiore senza inquietudine.