Sgangherata e bellissima, da sempre – eterna, come il suo attributo più celebre – Roma attira a sé viaggiatori, creativi, scrittori, artisti di ogni risma. Capitava anche quando era ridotta a metà della metà rispetto agli antichi fasti, una piccola città raccolta intorno alle rovine di un passato glorioso e sempre più lontano. A metà del Settecento Roma aveva poco più di 150 mila abitanti. Era la Roma tappa del Grand Tour per i rampolli dell’aristocrazia europea, la città che visitò Goethe restandone stregato.
Un secolo dopo, l’annessione al Regno d’Italia e lo status di capitale avviarono un mutamento tanto rapido quanto esagerato, persino mostruoso per le dimensioni. Il paesaggio urbano e antropologico esplose in mille pezzi, e la città che trovarono gli intellettuali del Novecento era diventata una metropoli diffusa, un dizionario di contraddizioni, miserie e splendori.
Era la Roma di Fellini, Morante, Pasolini e Moravia. Ma anche di autori brillanti e ingiustamente dimenticati, come Sandro De Feo, giornalista, critico cinematografico e scrittore originario di Modugno. Qualche mese fa l’editore Cliquot, che ha come missione «il recupero dei classici mancati, delle belle opere dimenticate», ha ripubblicato il romanzo Gli inganni, un gioiello uscito originariamente per Longanesi all’inizio degli anni Sessanta.
Figlio di un funzionario di Stato, e per questo arrivato con la famiglia da Modugno a Roma, De Feo fu diciamo fortemente consigliato dal padre a prendere la laurea in giurisprudenza, in modo da avviare una carriera da avvocato.
Di diverso avviso, presa la laurea Sandro si riversò nel cuore della vita culturale della città, bazzicata dagli intellettuali di cui sopra. Entrò in contatto, tra gli altri, con Emilio Cecchi, Federico Fellini e Roberto Rossellini, con cui lavorò alla sceneggiatura di film come Europa 51. Iniziò a scrivere per Il Messaggero, passò poi al Corriere della Sera e al primissimo Espresso di Arrigo Benedetti.
Tra i caffè di piazza del Popolo e via del Corso, o nelle scorribande oltretevere o verso est lungo la Nomentana, De Feo costruì la propria visione di quella enorme, caotica città. Una metropoli meridionale, in tutto e per tutto, con la luce del Mediterraneo, il trambusto di una città mediorientale e il vento di scirocco, elemento ricorrente de Gli inganni.
Protagonista del romanzo è Antonio, alter ego dello scrittore, ben inserito nel tessuto creativo cittadino, un lavoro nel mondo del cinema – erano i tempi della Hollywood sul Tevere. Riceve in visita da Bari Vituccio, uno che definiremmo intrallazzone, alla perenne ricerca di favori e raccomandazioni; dalle sue parti racconta di essere ammanicato nella Capitale, ma quando è a Roma è costretto a elemosinare conoscenze e contatti da Antonio, a cui è legato da un antico legame familiare: «Il suo paese, nella Puglia di mezzo, è anche il mio. Quando ero bambino distava una decina di chilometri, verso l’interno, dal capoluogo, adesso saranno sei, sì e no, fino a Bari, perché nel frattempo, cresciuta Bari e cresciuto il mio paese, si sono andati incontro, e un giorno o l’altro la città grossa finirà per inghiottire la piccola».
Avanza così a Roma un vortice di incontri, piccole commedie girate in esterno, spifferi di vita che si fanno largo in maniera del tutto casuale. Una bambina investita da portare in ospedale, una visita al prete; Silvana, ragazza affascinante, civettuola; il sopralluogo a villa Adriana, dove la ditta di Antonio vuole girare un film ambientato ai tempi di Catullo.
Gli inganni, romanzo liquido, dalla scrittura agile e ritmata, racconta la singola giornata di ordinaria follia di due uomini rimasti, chi più chi meno, ancorati alla provincia, sedotti dalla magia ma esposti anche al mistero, al caos regnante mentre per le strade va in scena il miracolo torbido della dolce vita.