Adolescence, la nuova miniserie disponibile su Netflix del regista Philip Barantini, è incentrata su un omicidio commesso ai danni di una ragazza adolescente e le puntate sono incentrate sulla ricerca del colpevole. Con gli occhi dello spettatore, si vive nei panni dei genitori di un ragazzo tredicenne accusato, su cui vertono le indagini, scoprendo assieme a loro chi è veramente loro figlio. Quello che appare ai loro occhi o un assassino? E se è così, come è possibile che abbia commesso quel crimine? Tra la pista poliziesca e le interrogazioni della psicologa, si snodano cause, eventi e fattori socioculturali ed educativi, che mettono in evidenza una trama sviluppata sul conflitto di genere, sul linguaggio soprattutto non verbale dei ragazzi e sui codici comunicativi dei social ai più – soprattutto adulti – sconosciuti.
Nel racconto, emerge quanto poco conosciuti siano tutti i figli dei protagonisti ai propri genitori. Attraversano la storia solitudini, traumi e dolori, che generano violenza nei comportamenti, bullismo e presenza di stereotipi, così come una funzione educativa della scuola assente, incapace di educare al bello e alla realizzazione personale. Trascuratezza, incuria e anaffettività, fanno da sfondo nella maggior parte dei protagonisti adulti, insegnanti e genitori, in preda alle loro dinamiche intrapersonali e intrapsichiche irrisolte e alla mancanza di strumenti e risorse per la cura amorevole e autorevole degli adolescenti. Uno spaccato che rappresenta in modo vivo e crudo parte della società, in cui malgrado la maturità anagrafica e i titoli di studio e di lavoro, sono tutti coinvolti in spirali involutive, che se non affrontate, vengono tramandate tra le generazioni come una catena a ciclo continuo. In questo schema, la violenza psicologica subita e accettata dalla madre del ragazzo indagato, svolge un complicato ed eroico ruolo di contenimento e cura per lo sviluppo di consapevolezza del marito, a cui egli pare giungere sul finire del racconto.
Ma non sempre va a finire così e oltre alla violenza diretta sulla moglie, i danni si ripercuotono sui figli, che non sono responsabili di quanto agiscono, poiché cresciuti mediante l'interiorizzazione inconscia di modelli di comportamento. Il film centra tutto su una frase finale della madre “noi lo abbiamo messo al mondo e siamo responsabili”, anche quando altri stimoli educativi come i social media, si inseriscono nel modello educativo formale e informale prevalente, come la famiglia, la scuola e gli amici. Quando molti pensano che il loro cucciolo, eterno bambino in crescita, sia al sicuro nella propria stanza, in realtà può essere nel luogo più pericoloso al mondo: un luogo in cui altri agenti educativi stanno propinando modelli, pensieri, stimoli, in risposta ai loro perché e alle loro domande esistenziali, sulla propria immagine, sul proprio successo relazionale e sessuale. E se da un lato riconoscere i confini dei figli adolescenti e favorire la libertà con fiducia è una pratica di supporto alla loro crescita, dall’altro il controllo e la proposta di attività in linea con il loro progetto evolutivo, sono una responsabilità degli adulti, che possono trovare il mondo di rendere più attraenti le esperienze di vita reale, centrate sugli affetti primari, sul piacere di condividere le esperienze. È necessario accompagnarli a scoprire la propria identità, sostenendo tutto ciò che li porta verso il loro bene che coincide con lo sviluppo della socialità responsabile e promuove la persona quale nucleo di valori e di potenzialità positive.
















