Il Gap di genere ora è anche Child Penalty.
Il rapporto annuale dell’Inps presentato il 24 settembre scorso, ha messo in evidenza la penalizzazione delle madri su stipendi e carriera, un differenziale di disparità di genere che non si recupera più. Un divario del 40% se si tratta del tasso di occupazione. La genitorialità induce bruschi cambiamenti nel percorso di carriera delle donne, si legge nel rapporto, a confronto di quello maschile che addirittura trae vantaggio dalla situazione. Prima della nascita del figlio, le dimissioni volontarie per uomini e donne hanno una percentuale simile, rispettivamente 9 e 11 per cento. Ma dalla nascita del primo figlio fino al terzo anno, per le donne arriva al 18% per scendere al 14% nel terzo anno, fino a calare come per i padri dal terzo anno del figlio.
Al momento dell’arrivo di un figlio si verifica un vero scombussolamento per le donne madri, oltre che nella carriera, anche per le retribuzioni: in partenza simile a quello dell’uomo - che all’anno della nascita registra un aumento del 6% per arrivare a un + 50% dopo i primi 7 anni- per quello delle madri scende del 76%. Alle donne con un figlio servono almeno 5 anni per ritornare al livello precedente al parto, dando luogo ad un aumento della forbice che non si ricongiunge più.
Il percorso a montagne russe è composto da abbandoni dei posti di lavoro più impegnativi e con meno possibilità di conciliazione vita lavoro e di flessibilità oraria e organizzativa, il part time - che spesso comporta l’esclusione da ruoli di responsabilità-, i sensi di colpa della madre lavoratrice che non riesce a percepirsi contemporaneamente efficace nel doppio ruolo e la mancanza di parità nella genitorialità, sempre più delegata in esclusiva alla madre.
Quando si parla di pari opportunità uomo donna al lavoro, bisogna comprendere che non si tratta solo di una pseudo sfida di genere culturale contemporanea per la necessità di restituire il giusto valore alle diversità, ma che si tratta soprattutto di una perdita di un vantaggio competitivo, anche per il sistema Paese, sul piano economico e sociale.
Si tratta di creare delle condizioni di accesso e permanenza delle donne al mercato del lavoro, che consenta anche di vivere in armonia gli altri ruoli sociali, mantenendo alta la propria capacità produttiva aumentando il Pil pro-capite dal 6,1 al 9,6% in prospettiva per il 2050. E, soprattutto, di evitare una spirale involutiva, consegnando a condizioni di svantaggio le donne in situazioni complesse come le violenze, i femminicidi, le prevaricazioni derivanti dalle vicende di vita privata, come separazioni, divorzi, perdite o lutti, in cui la variabile economica è la prima ad influire sulla debolezza delle stesse e la loro capacità di ribellarsi e di liberarsi.
Esse, infatti, in situazioni di violenza e di dipendenza economica, fanno più fatica e soffrono maggiormente il terremoto della stabilità economica oltre che emotiva e sentimentale, avendo acquisito maggiore responsabilità sui figli facendosi carico in misura superiore o esclusiva del carico di cura famigliare.
Come pensiamo che il desiderio di famiglia e di natalità possa aumentare se le logiche di disparità sociale ed economica e l’assenza del rispetto dei diritti umani, non creano le condizioni per l’emancipazione femminile e per la tutela delle stesse opportunità di crescita umana e professionale, ma al contrario finiscono per alimentare la spirale delle violenze fino a quella di genere?