Vent’anni dopo il debutto di The Wire, serie «confidenziale» che si è progressivamente imposta come una «grande opera», la più studiata nel campo delle scienze sociali, David Simon ritorna a Baltimora con un nuovo progetto narrativo, compresso in appena sei episodi. Difficile non vedere in We Own This City consacrata alle disfunzioni e ai crimini della polizia locale, il seguito ideale di The Wire, che ci aprì gli occhi sul carattere sistemico della produzione e della ripetizione della disuguaglianza in America. Eco lontano di un’età dell’oro (1990-2000) in cui le serie assomigliavano ai romanzi europei del XIX secolo, We Own This City indaga sullo stesso terreno e interroga lo stesso Paese sull’origine della sua implacabile ingiustizia sociale.
David Simon e George Pelecanos navigano complici sul filo della «nostalgia» per spiegarci meglio che non serve a niente perché la realtà, due decenni dopo, è rimasta la stessa. Mancano i mezzi, la violenza prospera e la lotta continua. La serie rintraccia la storia vera della Gun Trace Task Force, unità di polizia così «speciale» da credersi al di sopra della legge. Formati per arrestare i criminali, finiscono arrestati per corruzione e racket organizzato. Il racconto si svolge in due tempi: il debutto dell’inchiesta nel 2015 e la sua conclusione nel 2017. In mezzo, la genesi della GTTF, le testimonianze dei poliziotti dietro le sbarre e la parabola del sergente Wayne Jenkins, il loro carismatico leader. Se in The Wire, il fallimento della «guerra contro la droga» era evidente, in We Own This City la consapevolezza non basta più, bisogna andare alla radice. Facile a dirsi, difficile a farsi, avvincente da guardare (su Sky e Now). Perché We Own This City non è una serie poliziesca, è una grande serie sulla polizia.