TARANTO - Un risarcimento da 30mila euro a Legambiente. La corte di Cassazione ha confermato la condanna civile per Fabio Riva e Luigi Capogrosso, in passato ai vertici dell’ex Ilva di Taranto. Un procedimento nato dopo una condanna penale per inquinamento divenuta definitiva nel 2005 nei confronti dell’ex patron Emilio Riva e di Capogrosso.
Una vera e propria odissea quale portata avanti da allora dalle parti che in sede civile avevano chiesto il risarcimento dei danni. Una storia che dalla morte di Emilio Riva e dal subentro di Fabio Riva come erede ha portato a sorprese quasi incredibili. Tutto inizia il 30 aprile 2014 quando Emilio Riva muore per un tumore. Due anni prima, nel luglio 2012, la magistratura aveva sequestrato gli impianti dell’area a caldo dell’Ilva perché colpevole di diffondere «malattia e morte» con le emissioni nocive, ma in quegli anni è già in corso il processo per quantificare il risarcimento dopo la condanna del 2005. Nessuno in quel momento si costituisce come erede di Emilio Riva e il suo piccolo tesoro di circa tre milioni di euro, scampata ai numerosi sequestri della magistratura, diventa «eredità giacente».
Tra giugno e luglio 2014 i parenti dell’ex patron dell’acciaio avevano firmato la rinunzia dal notaio e il tribunale di Varese, nell’ottobre successiva, aveva nomina l’avvocato Omar Salmoiraghi come curatore dell’eredità giacente. Quella somma, composta da denaro e immobili e quote societarie doveva essere utilizzato per pagare i creditori. Ma a un certo punto qualcosa va storto. Salmoiraghi affida a un tecnico l’inventario dei beni: compaiono terreni, fabbricati, partecipazioni societarie e denaro contante su conti correnti per un valore di tre milioni di euro. L’avvocato di Varese contatta poi i legali delle parti civili per avere un’idea chiara dei debiti e delle pendenze. Circa due anni dopo, il tribunale di Varese a sorpresa lo sostituisce con un nuovo curatore: è l’avvocato Marco Moro Visconti, milanese.
Ma soprattutto, nel procedimento civile, c’è un nuovo colpo di scena: Fabio Riva si dichiara unico erede del padre Emilio. Fabio Arturo Riva, all’epoca 62enne, era rientrato in Italia proprio a luglio del 2014 dopo 31 mesi di latitanza a Londra. Pendeva su di lui un ordine di arresto per associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari, omissioni dolose di cautele sui luoghi di lavoro e poi corruzione in atti giudiziari e diversi altri reati contestati nella maxi inchiesta di Taranto che al termine del processo di primo grado hanno portato a una condanna a oltre 20 anni di carcere. Il 5 dicembre 2016 il secondogenito di Emilio Riva diventa il suo erede, ma nessuno dei creditori viene informato dal curatore Moro Visconti. Intanto i conti correnti dell’ex patron dell’acciaio finiscono nella disponibilità del figlio Fabio e quando la notizia arriva agli avvocati delle vittime di Taranto è troppo tardi: su quei conti correnti non c’è più nulla. Sono scomparsi anche gli immobili e le azioni.
Quando l’avvocato Massimo Moretti di Legambiente chiede di pignorare i beni di Fabio Riva sotto chiave finiscono solo un pianoforte, un attrezzo da palestra e una affettatrice. Oggi a distanza di quasi 20 anni da quella sentenza penale, Legambiente annuncerà l’esito della Cassazione e che di quei 30mila euro solo 15mila sono stati recuperati. All’appello ne mancano altrettanti per l’associazione ambientalista. E qualche miliardo per il resto della città.