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Delitto Nardelli a Taranto, nuove accuse. I pm: «Vuto è un clan mafioso»

 
Francesco Casula

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Francesco Casula

Delitto Nardelli a Taranto, nuove accuse. I pm: «Vuto è un clan mafioso»

Francesco Vuto: «Con la pistola mia al bar avrei buttato 4 o 5 colpi a prenderli»

Sabato 24 Giugno 2023, 13:05

TARANTO - La droga, le armi, gli scontri con altri gruppi rivali, i legami con i boss in carcere. Per la Direzione distrettuale antimafia di Lecce il gruppo guidato da Paolo Vuto, il 44enne arrestato con l’accusa di essere l’organizzatore dell’omicidio di Mimmo Nardelli, è una associazione di stampo mafioso.

È quanto emerge dalle nuove carte depositate dai pubblici ministeri Milto De Nozza e Francesco Sansobrino in occasione della convalida del fermo di Vuto e degli altri quattro indagati arrestati il 20 giugno scorso dalla Squadra Mobile che ha fatto luce sul delitto Nardelli, avvenuto il 26 maggio in via Cugini, e il tentato omicidio di Cristian Troia commesso la notte tra il 12 e il 13 aprile in vio Pio XII. Dai nuovi documenti, infatti, emerge che l’indagine aperta a novembre scorso dall’Antimafia di Lecce contempla nei confronti di Vuto e di altri, l’accusa di «416 bis», l’associazione mafiosa.

Indagini in corso che hanno permesso di chiudere immediatamente il cerchio sui due fatti di sangue per i quali sono stati arrestati, oltre a Paolo Vuto, anche Tiziano Nardelli, fratello della vittima e per gli inquirenti il mandante dell’assassinio, il 20enne Aldo Cristian Vuto, figlio di Paolo ritenuto l’esecutore materiale del delitto, il 23enne Francesco Vuto, cugino di Paolo, indicato come conducente dallo scooter su viaggiava il killer, e il 23enne Ramazan Kasli, tarantino di origine albanese che insieme a Paolo e ad Aldo Cristian Vuto, deve difendersi dall’accusa del tentato omicidio di Troia.

Nella enorme mole di documenti depositati dall’accusa, gran parte dei quali ancora coperte dagli «omissis», spuntano nuove intercettazioni che svelano una piccola parte dell’attività già registrata dai poliziotti guidati dal vice questore Cosimo Romano. Come i contatti tenuti dal 23enne Francesco Vuto, con un detenuto verso il quale nutre una sorta di venerazione. In una conversazione, «Kekko», promette «un pensiero» in denaro da consegnare al detenuto che lo ringrazia e gli offre la sua benedizione: «Lo sai che ti voglio bene... qualsiasi cosa, senti in dovere a fare il nome mio». Una sorta di protezione che l’uomo in carcere offre insieme alla garanzia della forza: «Io sono cresciuto Francè, ora mi sono fatto grande e tengo esperienza assai». E in un’altra conversazione Kekko vuole ostentare la sua forza: «non mi faccio mettere i piedi in testa da nessuno» e il detenuto gli spiega perché: «Questo è normale: il sangue tuo Vuto è, non è un sangue a occhio». Insomma nelle vene c’è una storia criminale da far valere. E da far rispettare. Ed è forse per questo che di fronte a gruppi rivali o a semplici screzi, il gruppo Vuto reagisce con tutta la forza. Quando a dicembre 2022 suo cugino Aldo Cristian è costretto a rifugiarsi in un bar per un’aggressione fatta da «quelli di Paolo VI», Kekko vorrebbe reagire a mano armata: «U frate, se tenevo quella mia mi sarei presentato al bar avrei buttato 4 o 5 colpi a prenderli e basta, finito». È il cugino maggiore Paolo, che tutti chiamano «zio» a placare l’animo del 23enne. Una storia che accade spesso. Come quando un uomo con il quale hanno avuto un problema ormai risolto si rivolge al capo del gruppo per chiedergli «un favore soltanto» e cioè di parlare con il 23enne per considerare davvero chiusa la vicenda: «puoi stare tranquillo - rassicura Paolo - Kekko, se non gli dico niente io, Kekko non si muove». Una frase che secondo gli inquirenti «conferma il livello superiore di Paolo rispetto al cugino più giovane».

Nel clan Vuto, stando a quanto si legge nei nuovi documenti, i problemi vengono infatti risolti con la forza dell’intero gruppo: gli screzi con altri sodalizi o i pusher che non vogliono pagare i debiti, ma non solo. Il 30 gennaio 2023, ad esempio, Kekko ha dato appuntamento a un avversario in un circolo: «vieni sui Tamburi allo Juventus Club che sto venendo lì… Vedi che mo entro a casa tua con un bello cristiano te lo dico io, capisci bene» e poi seguono le minacce «ti devo mettere in ginocchio perché «contro di noi, alla fine io te lo dico non sono solo, io ho un battaglione». Il 5 aprile, invece, Paolo Vuto raccoglie lo sfogo di un uomo del clan su un pusher che non salda i debiti per gli stupefacenti: «vedi che questo stupido proprio è… mo lo devo mandare all'ospedale... mo appeno lo prendo gli do mazzate». Il 15 febbraio, invece, è Paolo a discutere al telefono con un interlocutore a proposito di un imprenditore che pur avendo ricevuto 20mila euro in anticipo per dei lavori di ristrutturazione, non ha mai completato l’attività: «ci dobbiamo dare da fare e capire dove abita questo in modo tale che lo rintracciamo a questo qua che appena lo prendo deve andare in ospedale, ma grave!». Non sono le solite spacconate, il 44enne spiega fino in fondo le sue intenzioni: «lo devo far mangiare con la cannuccia hai capito? Perché tu sei venuto a rubare 20mila euro a coso nostra». Parole che per gli investigatori sono «di una gravita inaudita».

Il clan, sta crescendo quindi, e fa paura. Ma per spaventare, in alcuni casi, non bastano solo le parole o il peso di un cognome, servono anche le armi. Il 28 marzo scorso, i poliziotti registrano Kekko Vuto mentre mostra una pistola calibro 9 a un uomo che risponde senza mezzi termini: «sei d'agguato con questa». E Francesco Vuto risponde: «che la nove spara a occhio… o guidi o spari». Proprio come nell’omicidio di Mimmo Nardelli: Kekko guidava e Aldo Cristian sparava.

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