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emergenza Covid
Federica Marangio
04 Marzo 2021
La fede nella scienza. Ecco cosa ha salvato il dottor Giancarlo D’Alagni in questo anno in cui ha combattuto con tutte le sue forze contro il Covid-19. I bambini interrogati nella prima ondata sul Coronavirus si domandavano come mai quel virus così letale avesse la corona. Oggi a causa delle varianti in circolazione, i medici in prima linea osservano «un cambiamento nelle manifestazioni cliniche».
A cosa si riferisce il primario dell’Unità Operativa Complessa di Pneumologia del Moscati? «Alla consueta polmonite interstiziale oggi si associano complicanze cardio-vascolari che non si erano registrate prima d’ora». Non solo. È calata la classe di età mediana dei ricoverati e «riscontriamo una strana incidenza di eventi vascolari sia sul versante trombotico sia sul versante emorragico». Il direttore D’Alagni aveva un tarlo in principio di pandemia. «Temevo di soffrire per la perdita di vite e non lo avrei sopportato. Non accettavo di ottenere scarsi risultati. Mi metteva in crisi di dover fare i conti con la natura che aveva preso il sopravvento». Un anno fa quando una notte sono stati ricoverati nel suo reparto i primi due casi e di lì a poco si è visto costretto ad aprire un’altra ala per far fronte al numero crescente dei malati di SARS-CoV-2, del Covid-19 si sapeva ben poco, ma si temeva che questo virus travolgesse la nostra esistenza.
Dottore, se si guarda indietro, ricorda come è iniziato tutto? «Impossibile dimenticare quella prima notte». Ci sono stati momenti in cui ha temuto che non ce l’avreste fatta?
«Sì. Ho avuto paura soprattutto per i miei medici, i miei infermieri. Da primario sento forte il dovere di proteggerli e con il Covid ho temuto di non riuscirci».
I suoi collaboratori la definiscono “il primario che ogni medico dovrebbe avere”. Lei si è battuto con tutte le sue forze perché non mancassero i dispositivi di protezione individuale.
«Grazie alla solidarietà di tanti imprenditori nella prima ondata non ci è mancato mai nulla. E sono orgoglioso che il nostro reparto sia stato destinatario di tanta generosità».
Qual è stato il momento più bello?
«Le dimissioni. Ricordo che abbiamo accompagnato con gioia all’uscita la prima paziente. Ci ha detto grazie perché le abbiamo salvato la vita».
Ha mai pianto?
«Sì. Non mi davo pace. Trascorrevo la notte in ospedale alla ricerca disperata di nuove soluzioni. Abbiamo studiato tanto questo virus, ma sappiamo ancora poco».
Un ricordo a cui è legato?
«La telefonata dell’Arcivescovo Filippo Santoro. Ci ha donato parole di conforto e un posto per dormire quando non potevamo tornare a casa».
Cosa le ha insegnato questa esperienza?
«Che la sofferenza a volte non si esprime con le parole e che solo insieme possiamo distruggere questo virus. L’umiltà unita alla capacità di ascolto sono state alleate preziose in questa guerra purtroppo ancora aperta».
Come è cambiata la sua vita professionale e privata?
«Ho sofferto molto privando mio figlio Nicola del diritto di avere un padre e questo non me lo perdonerò mai. A lavoro avevo colleghi, oggi posso contare su amici, validi medici e infermieri che hanno anteposto il bene dei nostri pazienti alla loro vita privata».
Cosa non dimenticherà mai di questo anno infausto?
«Ho gioito quando abbiamo potuto dimettere marito e moglie. Questa coppia si è fatta forza a vicenda condividendo la stessa stanza d’ospedale. Decisioni che sembrano frutto di attimi sono state a lungo ponderate. Temevamo il peggio per lui, ma la presenza della moglie è stata di incoraggiamento e sono tornati a casa».
Non c’è un indice di gradimento per i pazienti, ma chi le ha trasmesso di più?
«Un nostro collega, un grande uomo che ha rischiato la sua vita per proteggere gli altri. È un medico del 118 che è arrivato da noi in gravissime condizioni e ora sta bene. Il suo sacrificio, il rischio che ha corso senza fermarsi a pensare, lo ha portato a mettere in gioco la sua vita. La sua guarigione è stata una vittoria immensa».
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