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L'analisi
Mimmo Mazza
01 Dicembre 2020
Non è provata - e chissà se mai lo sarà - la correlazione tra la morte di Vincenzo Semeraro, strappato alla vita a soli 11 anni dal cancro che lo ha ucciso come già avvenuto ad altri bambini nati e cresciuti al rione Tamburi e le emissioni dello stabilimento siderurgico più grande d’Europa. Ma la sua morte non può lasciare indifferenti quanti stanno lavorando attorno al dossier Ilva, discettando di piani industriali e miliardi di euro, prospettive occupazionali e carbone, posti nel consiglio di amministrazione e equilibri di potere, dimenticando l’unica cosa che Taranto chiede da 8 anni a questa parte, da quando cioè la magistratura sequestrò gli impianti e arrestò proprietari e dirigenti, accusando l’area a caldo di essere fonte di malattie e morte: la valutazione di impatto sanitario. Ovvero uno studio scientifico, estraneo a lobby e umori, in grado di dimostrare a tutti se e quanto fa male la produzione di acciaio, e quanta produzione, e se è davvero immaginabile a ridosso della scadenza dell’agenda 2030 dell’Onu produrre 8 milioni all’anno di tonnellate di acciaio utilizzando quasi esclusivamente il vecchio carbone a ridosso di una città di 200mila abitanti protesa verso un futuro che così rischia nuovamente di essere compromesso. Uno studio in grado di dare risposte chiare ai coetanei di Vincenzo che ieri sera lo hanno atteso al ritorno nel suo quartiere dall’ospedale di Roma dove ha lottato come un leone, di asciugare le lacrime ai suoi genitori, privati del bene più prezioso - un figlio - e costretti a guardare ogni mattina dalla finestra della loro abitazione la probabile - ancorché non provata - causa della morte.
Giunti in massa in Parlamento - eleggendo cinque parlamentari, anche se due nel frattempo hanno cambiato casacca - con la promessa di chiudere l’Ilva, poi derubricata in promessa di chiudere almeno le fonti inquinanti, i rappresentanti del Movimento 5 Stelle sembrano aver fallito l’approccio alla questione-acciaio.
Non solo nei corridoi del ministero dell’Ambiente, pur solcati da ormai oltre due anni dal ministro grillino Sergio Costa, si sono perse le tracce della valutazione di impatto sanitario, ma anche all’appuntamento per molti versi storico del ritorno dello Stato nella proprietà dell’Ilva, a 25 anni dalla vendita del complesso aziendale alla famiglia Riva, il partito già di lotta e ora di governo, non è stato in grado di proporre a Taranto, ai suoi cittadini e alla Puglia intera una soluzione in linea con la giusta transizione auspicata da Bruxelles, un modello produttivo innovativo, meno ancorato al carbone, facendosi scavalcare a sinistra dal presidente Michele Emiliano, paladino della decarbonizzazione tout court, e dal sindaco Rinaldo Melucci, ormai proteso verso la chiusura dell’area a caldo.
Nell’ordinare il sequestro del siderurgico e l’arresto di proprietari e dirigenti, nel luglio del 2012 il gip Patrizia Todisco scrisse: «La grave ed attualissima situazione di emergenza ambientale e sanitaria, imputabile alle emissioni inquinanti, convogliate, diffuse e fuggitive dell’Ilva, impone l’immediata adozione – a doverosa tutela di beni di rango costituzionale che non ammettono contemperamenti, compromessi o compressioni di sorta quali la salute e la vita umana – del sequestro preventivo dei predetti impianti funzionale alla interruzione delle attività inquinanti. Ciò, affinché – considerate le inequivocabili e cogenti indicazioni affidate alla valutazione dell’Autorità Giudiziaria dalle perizie espletate e dagli ulteriori accertamenti svolti nel corso delle indagini – non un altro bambino, non un altro abitante di questa sfortunata città, non un altro lavoratore dell’Ilva, abbia ancora ad ammalarsi o a morire o ad essere comunque esposto a tali pericoli, a causa delle emissioni tossiche del siderurgico».
Otto anni che sembrano passati invano.
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