TARANTO - Approda al vaglio del giudice per l'udienza preliminare l’inchiesta «Scammer’s Paradise», cioè paradiso dei truffatori, svolta dai militari del nucleo di polizia economico-finanziaria della guardia di finanza.
A poco più di un anno dalle 26 ordinanze di custodia cautelare (14 in carcere e 12 ai domiciliari) sorrette anche da un sequestro di circa 13,5 milioni di euro a carico di indagati e una sessantina di società coinvolte in un presunto maxi raggiro, sono 94 ora gli imputati a cui il sostituto procuratore Remo Epifani contesta a vario titolo circa 130 capi d’accusa, tra cui associazione a delinquere e truffa aggravata, usura, estorsione, riciclaggio, autoriciclaggio, trasferimento fraudolento di valori e false comunicazioni sociali.
La richiesta di rinvio a giudizio firmata dal pubblico ministero Remo Epifani individua anche dieci parti offese, tra società e persone fisiche.
Secondo gli investigatori delle fiamme gialle, era Grottaglie il centro nevralgico dove venivano studiate e messe in atto ingegnose truffe milionarie messe a segno in tutta Italia ai danni di colossi della telefonia e dell’informatica.
Sono due le presunte associazioni per delinquere individuate dagli investigatori. La mente della geniale operazione illecita, secondo gli investigatori, era Diego Vestita, grottagliese di 48 anni con precedenti arresti per truffa e droga e coinvolto anche nell’operazione “Dirty money”. A lui sono contestate circa 90 truffe.
Le indagini dei finanzieri sono partite a marzo del 2017 dai controlli a carico di un condannato per mafia, ritenuto vicino a Vestita.
Dalle intercettazioni sono emerse numerose truffe messe a segno dal grottagliese ai danni di multinazionali come Fastweb, Xerox e Hp che operano nella vendita e nel noleggio di beni tecnologici e sistemi informatici.
A Grottaglie poi c’era una seconda presunta associazione per delinquere, guidata da Enrico Urgesi, anch’egli gravato da precedenti specifici. Operava nel settore dei prodotti informatici ed elettronici.
Attraverso annunci online e finte sedi sparse in tutta Italia, il gruppo contattava altre aziende del settore per acquistare materiale, poi rivenduto a nero, pagando solo le prime rate e facendo perdere le proprie tracce grazie a un sistema di società fantasma o inattive.
Nel novero degli indagati, infatti c’è uno stuolo di soggetti accusati di aver fatto da prestanome quali titolari di società create ad arte per mettere a segno le truffe, con la complicità di un commercialista che falsificava i bilanci e li depositava in Camera di Commercio.
I prestanome erano ricercati e assoldati da due soggetti con precedenti per associazione per delinquere di stampo mafioso, uno legato al clan D’Amore, l’altro al clan D’Oronzo.
Secondo l’accusa i proventi delle truffe, svariati milioni di euro, erano reinvestiti in attività usuraia ma anche in attività lecite finite sotto sequestro come autolavaggi, un supermercato di Altamura, rivendite di auto, distributori di carburanti e centri benessere.
Per non essere intercettati, gli associati usavano telefoni cellulari di vecchia generazione e cambiavano continuamente schede Sim, intestate anche queste a prestanome.