“Trovo che i cani e gli animali in generale abbiano tutte le qualità dell’uomo, senza i suoi difetti.” Lo affermava il divo Alain Delon quando elogiava i suoi cani ed il suo esteso amore per tutti gli animali per cui era parte integrante della Fondazione di Brigitte Bardot e di altre Associazioni animaliste che sovvenzionava con generosità. Non lesinando interventi con mezzi da trasporto come l’elicottero per il soccorso immediato presso un veterinario di fiducia o intervenendo di persona per bloccare una sentenza di eutanasia a carico di alcuni cani che avevano aggredito in branco.
In quella circostanza l’attore francese affermava che in gabbia avrebbero dovuto rinchiudere più di un umano, lasciando liberi invece gli animali, come simbolo di creature pure, esenti da brogli e congetture, capaci di convivere pacificamente in natura, come era solito fare lui nella sua spaziosa tenuta (nel cuore della Loira a circa due ore da Parigi) in cui aveva fatto costruire la Cappella di Douchy, luogo di sepoltura di oltre una quarantina dei suoi cani e dove ha chiesto ed ottenuto di essere anch’egli sepolto, dopo la sua dipartita da questo mondo così imperfetto il 18 agosto u.s.
A detta dei suoi ricordi, Alain Delon aveva capito la sensibilità dei cani quando dopo aver rimproverato una sua dobermann, di nome Gala, l’aveva vista accucciarsi e dai suoi occhi rattristati gli era parso di vedere sgorgare alcune lacrime. Da allora era stato un crescendo in amore ed interesse volto al bene dei cani, gatti ed animali in genere. Aveva adottato animali vittime di incidenti e sevizie, come il cane Mambo a cui avevano appiccato fuoco. L’attore invecchiato, con affanni familiari e guai di salute, era preoccupato che il suo ultimo cane, un pastore belga Malinois di nome Loubo di ormai 10 anni non sarebbe sopravvissuto senza di lui, per la disperazione alla sua dipartita ed aveva proposto l’eutanasia per l’animale qualora l’attore fosse deceduto prima. Grazie a Dio si è mosso un “no plebiscitario”, sia da parte di tanti veterinari che da parte dell’Ordine dei Medici Veterinari francesi che esortava a utilizzare l’estrema ratio solo in caso di assoluta necessità ed incompatibilità con la vita del soggetto stesso. Così, l’attore ci ha ripensato e grazie al supporto sia della fondazione Bardot che dei familiari, Loubo continuerà a scorrazzare nei viali della tenuta Delon, fino al giorno in cui anch’esso abbandonando questa terra incontrerà il suo amato Alain sul Ponte dell’Arcobaleno.
Permettetemi un appunto di …. Filosofia spicciola! Mi sono sempre interrogato sul significato e sulla differenza tra la parola padrone e proprietario: secondo me la prima esprime possesso, la seconda partecipazione.
Partiamo da una certezza: su questa terra accumuliamo, possedendo tutto in “comodato d’uso”, dal momento che nasciamo nudi e così dipartiamo e nessuno può essere padrone assoluto di un altro essere vivente, dato che il secondo sarebbe in evidente stato di schiavitù. Essere proprietari, invece presuppone modo di coesistere, ovvero un coinvolgimento ed una partecipazione reciproca nella vita o nell’interesse di chi o cosa si affianca nella propria esistenza.
Nel momento in cui Alain Delon ha rinunciato alla macabra idea della soppressione di Loubo, da essere padrone assoluto è ridiventato proprietario e forse ora mi è più umanamente simpatico.
Sempre cavalcando l’onda dei ricordi, è impressionante che oltre dieci lustri fa un altro artista, l’immenso Principe Antonio de Curtis in arte Totò, intervistato da Oriana Fallaci, giornalista e famosa scrittrice, nel 1963 affermava più o meno lo stesso concetto espresso per tutta la vita da Alain Delon e cioè che il cane è “nu signore”, tutto il contrario dell’uomo. Infatti Totò diceva di mangiare più volentieri con un cane che con una persona. Questo, quando, in un’intervista l’artista partenopeo affermava di dover lavorare per sostenere anche la giusta causa di accudire 220 cani trovatelli (il Principe De Curtis odiava chiamarli randagi) e di aver investito circa 45 milioni di vecchie lire nella costruzione di un rifugio per loro, alle porte di Roma. Totò, spesso bizzarro nella vita quotidiana come i personaggi che interpretava famosi nel mondo, fissato con i titoli nobiliari, aveva nominato cavaliere il suo pappagallo Gennaro, visconte di Lavandù il suo cane Peppe e l’amato cane lupo Dick barone.
Secondo lui non c’era nulla di strano dal momento che anche Caligola nell’antica Roma aveva nominato senatore il suo cavallo! Poi su Dick ci sarebbero altre curiosità. Cane lupo alsaziano addestrato da cane poliziotto ormai in pensione, era stato affidato a Totò che gli aveva dedicato una struggente poesia, unica, come solo Totò sapeva scrivere. Per chi è cinefilo, oltre che cinofilo, Dick appare in una scena finale del film Totò a Parigi (1958), quando scodinzolando festosamente al suo reale proprietario, secondo il copione del film, gli consegna un portafoglio pieno di banconote che gli permettono di rientrare a Roma da Parigi, dove, perché “vagabondo”, era costretto a dormire su un albero con tanto di scaletta a corda e pioli per la discesa, di fronte alla torre Eiffel.