Lo stress come un compagno di viaggio. Sempre. Costante. È lì, vicino, sornione. In panchina che osserva. Nella vita e nello sport, nel calcio forse in dosi ancora più massicce. A volte è un’arma in più, perché spinge a dare il meglio, a cercare la perfezione, ammesso che nel calcio la perfezione esista. A volte è il nemico invisibile e subdolo che aggredisce alle spalle, circonda, divora. L’Italia non è il paese delle dimissioni. Il calcio ancora meno. Perché c’è sempre un ingaggio da difendere, alla faccia della dignità.
Prandelli ha dato un calcio all’ingaggio, invece, con grande dignità, «umanizzandosi» in un mondo che corre come un’auto pazza sulle autostrade americane.
Da Sacchi a Prandelli, in mezzo una lunga serie di allenatori finiti nel pallone per colpa del pallone. Perché bisogna vincer ad ogni costo, perché se si perde si è etichettati come falliti, perché comunque questo calcio brucia tempo e persone. Distribuendo soldi, forse troppi soldi. Lo «stress da panchina» anche in un mondo senza tifosi? In quest’era più virtuale che di contatti e abbracci? E certo, se non c’è il tifoso sugli spalti che protesta, c’è quello da tastiera che irrompe, quello social che coinvolge. Comunque sia, un tecnico è sempre sotto attacco. Parafrasando il ciclismo, un uomo solo al comando.
Stress, tormenti, riflessioni che hanno ridisegnato la storia del calcio. Un allenatore è pagato per fare da parafulmine, pagato anche profumatamente. E dunque pagato anche per accollarsi responsabilità non propriamente sue. Ma succede pure che i soldi non facciano la felicità. E che il «vuoto dentro» emerga, il «buco nero» mangi. E che un tecnico, una brava persona davvero, decida di mandare tutto a quel paese.