Sei stagioni, sette anni, 60 episodi e diversi premi dopo (Emmy, Golden Globe…), cala il sipario su Buckingham Palace e sulla serie faro di Netflix. Una fine come la immaginavamo, introspettiva e improntata a una profonda malinconia. Perché è una regina piena di nostalgia quella che ritroviamo nell’ultimo capitolo.
Elisabetta torna al centro del racconto e si prende il tempo per parlare con suo figlio, sua sorella e i suoi nipoti mentre il protocollo le impone di «apparecchiare» la sua morte. Non c’è menzione diretta di questa dipartita e questo era il piano. Peter Morgan non ha mai voluto che The Crown diventasse una serie di attualità o di storia in diretta, aveva deciso dal principio di interrompere il suo racconto al debutto degli anni Duemila e intorno all’ottantesimo compleanno della Regina, che regnerà ancora diciassette anni. Se William cambia la pelle infantile e acquista spessore dentro un teen movie per privilegiati, incarnando la nuova giovinezza della monarchia, un’atmosfera funebre regna sulla serie.
La morte aleggia sulla famiglia reale, che perde progressivamente i suoi cari: madri, sorelle, amici fedeli. Dopo quattro episodi indipendenti, consacrati alla tragica morte di Diana, The Crown archivia il «tabloidismo» e aggiusta il tiro, recuperando la sua regalità e il suo spleen. Quasi «sollevata» dalla scomparsa di quel corpo estraneo che la «Principessa di cuori» rappresentava nella vita reale dei Reali, la sesta stagione approfitta dell’apparizione dell’energico Tony Blair per affrontare l’eterna questione della riforma di un Paese e di un’istituzione che sta perdendo legittimità. Per tornare soprattutto all’essenziale e a un mistero chiuso come uno scrigno. Il mistero della corona e di una Regina che ha cambiato tutto senza toccare nulla. Inchino.