Una azienda privata - per esistere, prosperare e stare sul mercato - deve produrre utili. Gli utili, per una azienda pubblica, non sono le uniche finalità: la creazione di lavoro e provvidenze non esclusivamente economiche per la Nazione, rappresentano scopi primari, superiori alla creazione di profitti. Ma qualsiasi azienda – sia pubblica, sia privata – deve (e sottolineo: DEVE) restare negli ambiti della legalità. Semplice, no?
Tali concetti, di elementare comprensione, imbizzarriscono quando si prova ad applicarli per l’ex Ilva di Taranto. Lo stabilimento, ubicato in fondo al quartiere Tamburi, ora si chiama “Acciaierie d’Italia” e prima del commissariamento era gestita da una società partecipata al 62 per cento dal gruppo privato ArcelorMittal e al 38 per cento da Invitalia, l’agenzia statale per gli investimenti controllata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Una fusione nata male e cresciuta peggio. Le complicazioni giudiziarie che gravano su tale unione infelice sono numerosissime. Quelle sociali, pure. Quelle umane, anche. Quelle sanitarie, non ti dico. Quelle ambientali, mamma mia. Quelle politiche, aiuto. Le conseguenze di tutto questo sono sotto gli occhi di chi le vuol vedere, di chi non guarda al mare cercando la montagna.
Gentili lettori, lo confesso: a me piacerebbe scrivere editoriali sulle melanzane, sui frigoriferi, sulle movenze delle ballerine di salsa, sulle conservazioni delle cripte rupestri, sulle migrazioni dei fenicotteri rosa. Invece, una settimana sì e l’altra pure, le criticità originate dall’ex Ilva invadono ogni ambito di riflessione. E così mi ritrovo a osservare, tra il seccaginoso e lo sgomento, rimostranze operaie, dichiarazioni terminali, sentenze esemplari e scuzzupitombole sindacali. Intanto, a Taranto, piove e fa freddo. Non come a Genova, dove la temperatura è sempre un pochino più alta. È uno degli effetti collaterali dei posti dove i lavoratori sono sempre stati locomotiva, non vagone.
Poi, dentro di me, c’è l’attacco spietato del ricordo dei morti sul lavoro in fabbrica. Dei malati di cancro esuberanti alla media nazionale. Dei bambini ricoverati nel reparto di oncoematologia pediatrica. Di tutte le ricette pregiate dal codice 048 che si accumulano nelle farmacie ioniche. Non riesco a dimenticare mai tutto ciò che ho visto, che ho saputo, che ho sofferto, consapevole di essere a conoscenza solo di una piccolissima porzione della tragedia tarantina. Così l’inadeguatezza, vecchia compagna di vita, diventa rifugio. E il desiderio di scrivere di melanzane e frigoriferi diventa urgenza.
















