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«Vite di c'era», le parole che guariscono di Antonio Romano

 
Ugo Sbisà

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Ugo Sbisà

«Vite di c'era», le parole che guariscono di Antonio Romano

Edito da Musicaos, tra malattia e 'nursing narrativo'

Sabato 12 Dicembre 2020, 10:29

È un potere immenso quello della parola, che si tratti della parola detta o invece di quella ascoltata. E in molti casi è un potere che sa farsi taumaturgico, capace di lenire, se non le malattie del fisico, almeno quelle dell’anima. È partito da questa consapevolezza il trentasettenne salentino Antonio Romano per il suo Vite di c’era – L’invisibile nell’impercettibile (Musicaos ed. euro 15,00), un volume che trasporta il lettore in una singolare dimensione di rapporto quasi metafisico con la malattia e, soprattutto, con gli stati d’animo di chi la subisce. Il libro è articolato in sei differenti storie, ognuna delle quali si ricollega a una precisa patologia, ovvero il diabete di tipo 1, l’alzheimer, la neoplasia, la schizofrenia, la fibrosi polmonare, la depressione e la cardiomiopatia. A fare da guida in questo percorso è la voce di un infermiere, Nepente (nome col quale in greco si indica l’assenza di dolore) che raccoglie le storie e i pensieri dei singoli pazienti ponendo grande attenzione alla forza delle loro emozioni.

«Il libro è il frutto del mio lavoro di infermiere – spiega Romano – e soprattutto degli studi svolti a Siena, dove ho appreso tra l’altro le tecniche del cosiddetto Nursing narrativo, un metodo che consiste nel parlare col paziente e, tramite i suoi racconti, giungere alla conoscenza della sua vita per individuare il più corretto approccio alle sue esigenze».

Come ha riportato queste storie dalla realtà alle pagine del suo libro?
«Ho cercato di raccontare storie che sono originate dal nursing, ma che poi si articolano a storie dei pazienti. La mia idea era che dopo una breve lettura, il discorso personale del paziente si dovesse trasformare in un messaggio universale. Quando Nepente ascolta qualcuno, s’instaura un processo che può essere d’aiuto, non solo nella struttura sanitaria. In altre parole, il racconto aiuta a lenire la sofferenza».

Il sottotitolo del libro parla di «invisibile nell’impercettibile». Cosa intende?
«In generale i malati sono come degli invisibili, che si tratti di degenti cronici o di pazienti psichiatrici. Impercettibili sono invece quanti collaborano tutti i giorni e sono operativi nel sociale, quindi non solo il personale sanitario a tutti i livelli, ma anche chi si occupa di informazione e riporta delle storie. Quelle che racconto io nel libro intendono porgere messaggi comuni ad altri sofferenti, ma anche a chi ha la “fortuna” di essere sano, per fargli capire il vero senso della vita».

C’è nell’approccio narrativo anche una dimensione che attiene alla qualità delle emozioni.
«È vero e proprio per questo, insieme al racconto, ho cercato di concepirlo come un libro interattivo. Ci sono delle musiche che attengono ai vari stati d’animo, conferendo ritmo alle singole storie e che ho raccolto in una playlist di Spotify e ci sono anche delle illustrazioni molto elementari, di Maria Concetta Olimpio, che vogliono arrivare al cuore dei lettori. Rispetto alla struttura narrativa, invece, le prime cinque storie parlano delle emozioni viste dall’esterno, sui pazienti. Nel sesto capitolo, “L’attore regista”, le emozioni sono un riflesso, ma tramite un gioco bizzarro: Nepente si ritrova a essere anch’egli attore, perché subisce una patologia cronica e s’immedesima negli assistiti, capendo fino in fondo il significato dell’empatia».

Cosa impara Nepente da questa esperienza?
«Che ogni paziente ha bisogno di un approccio diverso e, soprattutto, che deve passare da “persona di cui ci si fa carico” a “unità di senso”. Farsi carico significa curare la malattia. Unità di senso vuol dire invece che la persona è un complesso di tutto, di psicologia, di contesto sociale, di stile di vita. Quando ci si ammala e si viene ricoverati, si perdono tutte le sicurezze. Il medico, l’assistente sanitario devono saper fare la differenza. Il libro non dà spiegazioni tecnico scientifiche delle patologie, ma vuole aiutare chi sta bene a essere felice della propria condizione e saperla sfruttare diventando a sua volta un Nepente con il prossimo».

Il libro è stato scritto prima della pandemia. Sarebbe stato diverso se fosse nato in questi mesi?
«Il libro ha un percorso decennale. Forse il Covid lo avrebbe modificato, ma solo in alcuni aspetti inerenti il sostegno psicologico. Quelle che stiamo vivendo erano condizioni inimmaginabili: nessuno avrebbe ipotizzato una totale assenza dei cosiddetti care giver, le persone esterne che oggi non hanno più accesso alle strutture dove ci sono i propri cari».

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