Sabato 06 Settembre 2025 | 14:30

Vota e fai votare, la regola clientelare

 
Michele Mirabella

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L’istigazione era, ed è, giustamente rivolta non solo all’interlocutore cittadino, ma, anche, ai suoi corrispondenti perplessi oppure parenti distratti, amici qualunquisti per rassegnazione

Domenica 14 Aprile 2024, 09:37

«Vota e fai votare» era ed è, ancora, una formula di propaganda elettorale molto comune. L’istigazione era, ed è, giustamente rivolta non solo all’interlocutore cittadino, ma, anche, ai suoi corrispondenti perplessi oppure parenti distratti, amici qualunquisti per rassegnazione. Il votante diventava, e diventa, un propagandista in proprio per rassegnazione al male minore, sia, molto più spesso, per interesse personale, ondeggiamenti di simpatie occasionali, pittoresche ripicche o, addirittura, per ubbidire alla militanza dettata da convinzioni politiche. Delle ideologie non si parla più da decenni: i loro resti vagheggiano nelle smemoratezze culturali e giornalistiche, abbandonate, come sono, dalla politica moderna. Ed è qui l’errore. Vota, dunque! Ma FAI VOTARE. Chiunque per chiunque.

Il sistema incapace di raggiungere con la politica le pieghe più riposte del tessuto sociale, si affida agli individui che possono votare per convinzione, (incredibile: può accadere), ma, anche o soprattutto, per avere il posto alla Regione, il parcheggio davanti a casa, la licenza per il cognato, il sussidio per la zia della «commare», per una bombola di gas, per tenerci contenti o, perfino, per motivi politici, ma devono anche far votare. Devono, cioè convincere altri, parenti, amici, affini, casigliani, dipendenti che siano, a votare in un certo modo per una convinzione, istigata da una promessa del posto alla Regione, il parcheggio «davanti a casa», la licenza per il cognato, per tenere contenti i postulanti pronti a pagare o, perfino, per motivi politici. E, a loro volta, per ottenere quello che vogliono, devono «far» votare. Una specie di catena di Sant’Antonio che, per così dire, sminuzza la democrazia diretta al rango di pettegolezzo sociale, istiga il vicolo alla conquista del consenso, innalza clienti al titolo di promotori. Nel mare della casistica storica repubblicana galleggiano esempi celebri: si va dalla dotazione di spaghetti prima del voto conditi dai pomodori pelati elargiti solo a vittoria ottenuta, alla banconota tagliata e ricomposta dopo l’unzione elettorale, alle scarpe spaiate, al posto di lavoro lasciato intravedere dopo il comizio e concesso a cose fatte. Nella piazza del paese si vedeva spesso passeggiare il deputato con il codazzo dei postulanti che si manifestava come una minuscola cratofania rustica a dimostrazione che il modesto prezzo che si pagava per la democrazia era pur sempre meglio della tirannide. Posto che cratofanico è tutto ciò che manifesta il potere, anche uno struscio diventa atto politico.

Nessuno si è scandalizzato mai troppo per questo clientelismo pervicace, ma accettabile, se rimaneva nell’ambito d’una sorta di familismo allargato e, soprattutto, ineluttabile in una società complessa e ancora erede di stili di vita e comportamenti ancestrali in cui le relazioni personali dettavano scelte politiche e ragioni del cuore, si, ma anche pressanti ragioni dello stomaco e urgenze di sopravvivenza.

Il pericolo era un altro e si annidava nelle regole stesse della democrazia, doverosamente rispettose delle libertà individuali, dei diritti e dei doveri dei sudditi emancipati ed elevati al rango di cittadini, quelle regole che da molti postulatori dello stato liberal esasperato sono considerate intralci e legacci. La democrazia è un organismo delicato: s’ammala facilmente di estremismo, di quell’esasperazione dei suoi principi naturali e del suo statuto di ragioni. Ha bisogno dell’equilibrio e della moderazione, di autocorreggersi per sopravvivere. Chi, con la scusa di applicare all’estremo i principi della democrazia, combatte lo stato di diritto, sbuffa contro le regole parlamentari, considera la legge, non il nomos, ovvero, la regola ineludibile che armonizza la società, ma una pastoia alla individuale iniziativa esasperata, la condanna all’asfissia.

La malavita pugliese, di ogni rango, badate, non ha studiato sociologia, probabilmente, ma, artigianalmente, dimostra di intuirne i rudimenti e mette in atto la sua privata critica sociale: pratica il pizzo. E lo pratica alla fonte: non aspetta di sapere chi vincerà votando e facendo votare, la grassazione la esercita prima. In questo dimostrando un sovrano disinteresse alla contesa elettorale considerandola una bega inutile e dispendiosa per chi ci crede e un ottimo affare per che non chi non ci crede. Questo hanno fatto a Bari e altrove in provincia. Ci si scandalizza, naturalmente. Ma quante altre volte sarà successo e non lo abbiamo saputo? Perché s’accetta la logica rassegnata dei voti comprati, delle anime morte scambiate a un tanto al mazzo, delle clientele messe all’incanto del mercato? Ci si deve scandalizzare a monte e ci si deve arrabbiare per questa rassegnazione. Si deve dire, insomma, di votare e di convincere con pazienza, argomenti e idee a far votare. Come racconta la cronaca, anche a Bari, se c’è un comizio per far conoscere idee giuste e oneste, i cittadini arrivano. E, a quel punto, tirando un sospiro di sollievo, se si scopre che la malavita compra i voti, si fa una denuncia, subito, ai Carabinieri, alla Polizia, alla Magistratura. In coro.

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