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Un tuffo nel ricordo della modernità dei preti per la «benedetta tivvù»

 
Michele Mirabella

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Michele Mirabella

Quando c'è la salute, c'è Michele Mirabella

Per la precisione il piccolo schermo arrivò a casa di mio nonno a Bitonto. Era un «Condor» da 21 pollici di legno chiaro che troneggiò nel salottino come un idolo

Domenica 16 Aprile 2023, 14:55

Un lettore non giovanissimo mi ha esortato a tornare sul personaggio del parroco che spesso cito come un’icona ispiratrice delle mie «Ricordanze. So che mi legge. E lo accontento.

Don Vincenzo, il Parroco della Parrocchia di San Pietro in Vincoli, a Bitonto era, grazie a Dio, un prete moderno. Esserlo oggi è quasi obbligatorio: discende dalle difficoltà della valle di lacrime in vistosa crisi d’identità e sempre in procinto di trasformarsi in deserto inerte non solo di pianti, ma, anche, d’emozioni qualsiasi.

Ieri, lo «ieri» degli anni ‘50, decidere di essere moderni significava una coraggiosa responsabilità. Io ero bambino e la modernità mi sembrava affascinante: un bambino non può essere conservatore, la sua freddezza verso il passato è, per così dire, ontologica, naturale. Dunque a me, bambino piaceva la modernità di Don Vincenzo, anche perché si manifestava con un ciclomotore sfrigolante con cui viaggiava per il paese. Era un vero ciclomotore: una normale bicicletta, cioè, a cui, ingegnosamente, era stato applicato un motorino minuscolo che alleviava il pedalare sulle chianghe delle antiche strade. La tonaca rischiava, ad ogni giro, di aggrovigliarsi nelle ruote, è vero, ma Don Vincenzo riuscì a sbrigarsela sportivamente, munendo di mollette da bucato i pantaloni per impedire che sventolassero nei meccanismi, causando incidenti stradali.
La modernità dei preti di allora, questo era: coniugare ligie tradizioni alle invenzioni nuove dell’uomo e del progresso. Troppo facile mettere normali braghe e saio nero molto clericali, più arduo sbrigarsela con il motorino a miscela e la veste talare, con il calcio-balilla e i chierichetti con cotta e incenso, con le confessioni di solitari e innocui sacrifici a Venere da bollare con blande prescrizioni di «Pater, Ave et Gloria» o, nei casi più impegnativi, con un triduo a Sant’Antonio.

E Don Vincenzo era un genio in questi ardimenti perché sapeva saggiamente governare un gregge spaesato, ma già riottoso alle vecchie tradizioni e ansioso di un nuovo che non conosceva distintamente, ma di cui già intuiva, siamo nel tardi anni ‘50, il fascino irresistibile. Fu lui a farmi conoscere «Il Vittorioso», giornale di ferrea costituzione cattolica che si poteva permettere l’inimitabile palestra dei fumetti di Jacovitti, eretico per vocazione, ma geniale disegnatore e giornalista di strisce surreali e indimenticabili. Poi arrivò la televisione. Il prossimo 3 gennaio 2024 festeggeremo il suo settantesimo compleanno.

Per la precisione la televisione arrivò a casa di mio nonno, Don Vito, a Bitonto, il quale ci ospitava per qualche mese in una di quelle inevitabili transumanze legate al mestiere di mio padre, mestiere delle armi. E fu felice di ospitare anche il televisore al seguito. La casa di mio nonno confinava con due chiese: la bellissima San Francesco «della scarpa» e con la parrocchia di «San Pietro in vincoli», anzi, diciamo che, di questa, era una specie di dipendenza monumentale.

Qui, in una delle propaggini della intangibile sala da pranzo, trovò sede e podio un apparecchio enorme, per i tempi, un «Condor» da 21 pollici di legno chiaro che troneggiò nel salottino come un idolo. Trovai, anche da bambino mi cimentavo con certe acrobazie sociologiche, che ci fosse del paradossale che uno dei primi apparecchi della televisione in paese, trovasse ospitalità ad un palmo dai campanili di due chiese, perché, all’epoca era inevitabile, il sospetto c’era che qualcosa di sulfureo, comunque, aleggiasse tra i catodi. Una trappola del maligno.

La novità fece, in un lampo, il giro del quartiere e se ne parlò con una certa circospezione. Del resto non si poteva tener nascosta: un’enorme antenna fiorì sul terrazzo tra i tronchetti dell’uva selvatica e i trespoli futuristi della elettricità. Se la chiesa, a quel punto, avesse voluto, l’indice per noi era puntato. Io me l’aspettavo, c’erano mille indizi dell’ostilità, quasi sempre preconcetta, verso l’azzardo del moderno catodico che cominciava a spadroneggiare in concorrenza con i modesti e laconici «media» di allora. La risposta arrivò subito. Una sera Don Vincenzo bussò alla porta e chiese di poterla vedere, «questa benedetta televisione».

S’accomodò in poltrona e seguì tutti i programmi, fino alla nenia conclusiva e alla buonanotte di Emma Danieli, regina delle annunciatrici, dette «volti d’angelo», forse per tacitare il borbottio del moralismo misoneista. Fu così per molte e molte sere. Il Parroco ci teneva compagnia con assiduità e non scansò mai alcun programma, compresi le prime, ansanti, «Tribune politiche» e i varietà. Erano, questi, assai pudichi, quasi bacchettoni: scenette comiche, canzoni nate belle e antiquate, tersicoree danzanti con il saio invece del tutù. Ma sempre esibizione di ballerine erano. E lui niente, imperterrito!

Qualche volta, andando in onda scene che potevano turbare l’immacolata coscienza del pastore d’anime, io lo guardavo di sottecchi per scrutare, maliziosamente, un qualche imbarazzo. Niente, don Vincenzo sorrideva. Una sera, congedandosi salutato dagli sbadigli di mio nonno, ribadì a mo’ di saluto «Benedetta televisione!» e sentenziò: «È proprio un miracolo!» Non venne più. Se la sarà comprata.

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