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Il gamberetto un po’ sciocco può essere simbolo politico

 
Michele Mirabella

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Michele Mirabella

Il gamberetto un po’ sciocco può essere simbolo politico

Il «salipcio» nel mare della nuova stagione. Perché no?

Domenica 09 Ottobre 2022, 12:17

Anni or sono, scrissi un minuscolo trattatello politico-piscatorio che, a leggerlo oggi, mi è sembrato inquietante profezia circa la politica, non solo pugliese, ma tutta italiana metaforizzata dalla pesca, «l’ars piscatoria».

Lo ripropongo così come si aggancia all’amo l’esca della ricerca di lettori ammiccanti: ma è possibile che nessuno, diciamo, della sinistra, a Bari, in Puglia, abbia pensato di utilizzare il «salipcio» come simbolo per lanciare un movimento politico? E a nessuno sia venuto in mente di adottare il «salipcio» come emblema di una coalizione già esistente? Alle domande natanti nel mare della politica nazionale si poteva opporre la risacca di una divagazione: se c’è un eloquente ed efficace emblema per rappresentare la mobilità fulminea, la velocità agilissima, la lucentezza che mostra e nasconde, la capacità di navigare acque diverse, l’autolesionismo beato, ebbene, questo è un armamentario di canne, reti e reticelle della politica di cui è metafora marina il «salipcio».

In realtà, a Bari, si dovrebbe pronunciare «salipce» senza far sentire la e finale. Prelevo dal lessico del dialetto barese, per il quale devo gratitudine ad Alfredo Giovine, la definizione ragionata della voce. «Salipce». Singolare maschile. Scientifico: «Palaemonserratus», dio dentato dei porti. Gamberetto: Salipce è termine descrittivo che il pescatore gli ha attribuito perché evoca i suoi guizzi e salti fulminei, a zig-zag, irregolari. Virtù acrobatiche, queste, perfettamente allegorizzanti certi giochi elettorali. In realtà, il lessico dice «termine onomatopeico», ma mi permetto di correggere, visto che rumori in acqua il «salipce» non ne fa, se non impercettibili da orecchio umano, ancorché piscatorio. Il suo iridescente guizzare non è ignoto a noi che fummo giovanissimi negli Anni Sessanta, prima che la furia devastatrice dei bombaroli desertificasse le marine. Acchiappare un «salipce» era evento raro e solo titolati pescatori di «jacc», la paziente pesca di attesa predatoria nelle acque limitrofe alla spiaggia, erano in grado di assicurarne qualcuno nella cesta. Più spesso il fortunato divorava, ipso facto, il gamberetto anticipando già lì, sullo scoglio, le godurie del «crudo» senza il lenocinio del limone. Come si dice da noi: scorz e tutt.
Lo salvava il fatto che era una troppo parca pesca: per farne un boccone ce ne volevano centinaia. E, così, nugoli di «salipci» scorrazzavano beatamente nelle pozze dei piccoli mari frastagliati delle nostre spiagge allora profumate, trascurati dai pescatori in agguato di ben altre, saporite prede.

Divertitevi a metaforizzare la politica in questa incursione marittima: la caratteristica di questo gamberetto era l’abilità di mimetizzarsi nelle spume delle minuscole onde sulle rive con quel suo adattarsi nella livrea iridescente al colore dell’acqua, la velocità dei suoi scatti natatori, i suoi guizzi fulminei nel cambiare rotta dopo attimi di apparente immobilità. Ma la sua attività instancabile e snervante completamente priva di logica era, poi, anche il suo punto debole. Bastava capirlo e sfruttare tale autolesionistica inclinazione per ingannarlo e metterne ciuffi guizzanti al sicuro nella calza bagnata di alghe. Quella sua imprevedibile condotta innervosiva il dilettante, ma era sfruttata dal professionista della reticella e dalla «Pelosa», la coriacea predatrice catafratta che sapeva essere, per restare nella metafora politica, al contrario dello spavaldo «salipce», stratega e mordace.

Intendiamoci, anche lei finiva spesso rosolata in bella mostra nei canestri con molte sue simili, catturata sfruttando la sua avidità di ghiottonerie marine come il polpo cui non sapeva resistere. Questo, l’octopus vulgaris, finiva mutilato e i suoi tentacoli utilizzati, avvinti sulla cannetta, come esca. Oppure, sbattuto a dovere sugli scogli, finiva per arricciarsi per la gioia gastronomica degli intenditori.

Ho navigato abbastanza, mi accorgo, e ho elencato una discreta serie di segnali teriomorfi cui approvvigionarsi per disegnare, in questo cabotaggio famigliare, un acquario metafora in cui sguazzare per prendersi il gusto di sfottere. Tra pescatori si fa: dicevo del «salipce» come simbolo della politica: da noi è ambigua, guizzante, si mimetizza, cambia rotta repentinamente, nuota senza logica, si difende solo col suo essere insapore. Mi pare che ce ne sia abbastanza da meritare di finire in araldica posizione per emblematizzare questi pasticci e questi pasticcioni che, dovunque, finiscono per far vincere le pelose. Quanto alle quali, beh, questo è un affare della politica odierna: stare in agguato in attesa che gli altri si facciano acchiappare, alla fine non paga, si finisce, comunque, nel canestro e, per ironia della sorte, in un bel colore rosso. Resterebbe senza parte in commedia il polpo. Ma, no, con tutti quei tentacoli c’è solo l’imbarazzo della scelta nell’acqua bassa degli scandali per affibbiarlo simbolicamente. A Bari, si dice che «la mort du pulp jè l’acqua sua stess».

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