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Lecce, dalla deportazione al Covid: nonno Pasqualino cuce mascherine per i nipotini

 
Biagio Valerio

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Biagio Valerio

Pasqualino Favale

Pasqualino Favale

Salentino, 97 anni, fu a lungo prigioniero

Domenica 26 Aprile 2020, 14:23

16:44

LECCE - Chi ha vissuto sulla propria pelle la deportazione e la schiavitù, può deprimersi per la momentanea privazione della libertà? La nostra storia di oggi è raccontata dagli occhi, vividi ed efficienti, di un anziano che vive a Lecce e cuce mascherine anti-Covid.

Il suo nome è Pasqualino Favale, 97 anni, ma per un lungo periodo della sua vita è stato un numero, incasellato nelle statistiche di una sigla: Imi. Altrimenti detti “gli schiavi di Hitler”. Sono stati tanti, forse oltre un milione. Si trovavano in molti sul fronte balcanico o greco e lì vennero colti quando, per effetto del trattato di Cassibile firmato da Badoglio l’otto settembre del 1943, scoprirono di non sapere più chi fossero i propri nemici: gli Alleati, contro i quali avevano sparato fino ad un minuto prima, o i soldati tedeschi che rivolsero contro di loro mitra e carri armati? La resa dell’Italia, infatti, per i nazisti aveva trasformato le Badoglio-truppen, come venivano chiamate con derisione le forze armate italiane, in battaglioni di traditori.

Gli Internati Militari Italiani finirono in massa sui carri bestiame. Ostaggi, armi di ricatto nei confronti di Mussolini, viaggiarono per giorni lungo l’Europa per poi essere obbligati a lavorare nelle fabbriche belliche e nell’industria pesante, nelle fattorie, nelle miniere, in Germania, Austria e Polonia. L’armistizio aveva avuto anche l’effetto di soggiogare una Nazione e sottoporre i suoi giovani migliori ad una prova terribile. Pochissimi, una decima parte, accettarono di continuare a combattere al fianco dei tedeschi. E ci fu chi, Imi, non lo diventò mai: memorabile l’episodio di eroismo e resistenza dei militari italiani nei confronti dei nazisti ricordato come l’eccidio di Cefalonia. Pasqualino, originario di Gioia del Colle, era giovanissimo. Classe ‘22. Un altro illustre deportato, che tanto ha fatto con la sua testimonianza per la riscoperta di questo periodo storico, il neritino Nino Pagliula, ricordava nei suoi memoriali che i più giovani e fragili morivano per primi nei campi. Ma la tempra di Pasqualino - e lo dimostrerà - è come acciaio. Nel periodo bellico era aviere scelto, volava sui cieli d’Albania. I soldati tedeschi lo portarono in Polonia, con gli abiti estivi che avevano indosso, in una fabbrica metalmeccanica a Langenbielau. Lui “era” il numero della sua tessera, la 836627. Venne poi rinchiuso in un altro campo a Gotha. Internato 465. Ma, sia pur giovanissimo, aveva capito da quale parte stare: «Durante la permanenza nel campo di concentramento di Thorn - racconta ai nipoti - spesso da noi italiani venivano a trovarci militari tedeschi e fascisti italiani per convincerci a collaborare con loro. In cambio ci avrebbero liberati.

Alcuni dei miei compagni, terrorizzati, aderirono. Speravano di poter riabbracciare i loro cari. Io rifiutai, sarei dovuto andare contro i miei fratelli, la mia terra?» Per lunghi mesi è stato confinato in questi luoghi senza ricevere più alcuna notizia dalla sua famiglia e dalla sua tanto amata Gioia del Colle. «Il nonno, però - dice la nipote Chiara Ventrella - era convinto di aver fatto la scelta giusta. Non collaborare, resistere!» E così tira avanti. Lavorando ogni giorno, sottoposto ad ogni genere di privazione, al freddo e in condizioni disumane, in due diverse fabbriche. Gli capita di mangiare bucce di patate che i cittadini del posto lasciano nelle buste al di fuori delle abitazioni ma la sua abnegazione e dedizione al lavoro gli fanno guadagnare anche la stima dei “padroni”. Un civile, ad esempio, gli passava del pane di nascosto perché era bravo, ci sapeva fare. La sua agilità e la sua forza, infatti, consentivano attività che non tutti sapevano svolgere. Un giorno, andando in ospedale a causa di un incidente, passò davanti e vide il campo degli ebrei, con le divise a strisce. Una immagine ricorrente nei suoi racconti. Il due aprile del ‘45, inaspettatamente, arriva la libertà per chi ha avuto forza e fede. Ed ha l’aspetto di un tank americano. A Como Pasqualino giunge a fine agosto. Poi, tra passaggi di fortuna e treni merci, il ritorno in Puglia, a Gioia. I 75 anni successivi volano via con il matrimonio, il trasferimento a Lecce, l’arrivo delle due figlie Arcangela e Carla, quattro nipoti, il lavoro. Pasqualino indossa la divisa della polizia e lavora anche in questura a Lecce. «Sapeva già dove andavano posizionati i giusti valori – sottolinea Chiara – anche da poliziotto ha sicuramente saputo cos’erano le cose giuste da fare e quelle sbagliate». Un uomo libero e giusto con una grande maestra alle spalle: la sua storia personale. Ma Pasqualino, che ha visto ed indossato le maschere antigas, non si arrende nemmeno ora. E trascorre le sue giornate leggendo la settimana enigmistica, parlando con l’amata moglie Anna Maria, di dieci anni più giovane, che dice ai nipoti «chi ha vissuto le privazioni della guerra sa che questo è nulla al confronto». E cuce. Ordinatamente, al suo tavolo da lavoro, realizza mascherine in stoffa per battere l’influenza, per figli, nipoti e chiunque le richieda. Una nuova “guerra” da vincere per questo nonno da combattimento.

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