FOGGIA - Da amici-alleati a rivali-nemici per la pelle. È la parabola scritta dal sangue tra i Libergolis di Monte Sant’Angelo e i Romito di Manfredonia, clan che nelle mappe della Dia negli anni si è trasformata prima in gruppo Romito/Lombardi/Ricucci per arrivare all’attuale denominazione Lombardi/Ricucci/La Torre. Negli anni Ottanta/Novanta e nei primi anni del nuovo millennio le due famiglie erano alleate, come emerge da blitz e processi peraltro quasi sempre conclusi con assoluzioni. Questo succedeva prima che odio e affari le dividessero, come raccontano la scia di sangue e le sentenze del maxi-processo alla mafia garganica: 99 arresti a giugno 2004; 102 imputati; oltre 40 condanne.
Dda e carabinieri sostenevano che sul Gargano comandasse il “clan dei montanari” composto dal braccio armato rappresentato dai Libergolis; e dagli investitori-riciclatori dei proventi illeciti, ruolo attribuito ai Romito. Le sentenze bocciarono per metà questo assunto: i Romito (padre e tre figli) assolti dalle accuse di mafia e anche di un duplice omicidio; i tre fratelli Libergolis riconosciuti colpevoli: ergastolo a Franco accusato anche di omicidio oltre che di mafia e droga; 24 anni a Armando (ritenuto al vertice) e Matteo.
L’odio dei Libergolis contro gli ex amici Romito nasce dal ruolo di confidenti di alcuni esponenti della famiglia sipontina, che aiutarono i carabinieri a trovare prove decisive per arrivare ai verdetti di colpevolezza dei tre fratelli montanari. Decisive le intercettazioni del dicembre 2003 nella masseria dei Romito di “Orti Frenti” nelle campagne di San Giovanni Rotondo, dove si svolse un summit di mafia presenti i fratelli Franco e Mario Luciano Romito (ammazzati a aprile 2009 e agosto 2017); i fratelli Armando e Franco Libergolis e altri garganici. La riunione fu convocata per dirimere contrasti nel “clan dei montanari” in seguito all’omicidio di un fedelissimo dei Libergolis, Michele Santoro ucciso a Siponto nel settembre 2003.
Il fatto che i Romito partecipassero a un summit era una prova della loro mafiosità, argomentò la Dda nel chiederne la condanna. Ma il gup di Bari davanti al quale si celebrò il giudizio abbreviato a 80 dei 102 imputati del maxi-processo alla mafia garganica (tra cui i Romito, mentre i Libergolis optarono per il giudizio ordinario in corte d’assise), non fu d’accordo e assolse i Romito «perché l’intercettazione ambientale nella masseria fu eseguita dai carabinieri con la fattiva collaborazione dei Romito che parteciparono anche alla trascrizione della captazione. Erano perfettamente a conoscenza dell’operazione di intercettazione che svolgendosi in casa loro fu chiaramente architettata dagli stessi», con l’obiettivo «di attirare in trappola anche i Libergolis.
I Romito in quella riunione da un lato tendevano a sminuire la loro responsabilità in fatti criminali, limitandoli al solo contrabbando; e dall’altro tentavano di coinvolgere i fratelli Libergolis nei vari episodi criminali (tra cui omicidi: ndr) di cui si discuteva. È del tutto evidente - scrisse il giudice in sentenza - il tentativo intelligente dei Romito di far cadere i Libergolis in trappola; di cercare di far confessare loro qualcosa di estremamente compromettente e grave. È la prova regina che i Romito erano non solo confidenti dei carabinieri, ma sia pure impropriamente venivano utilizzati addirittura come veri e propri agenti provocatori». E se erano confidenti dei carabinieri, ne deriva che i Romito - sentenziò il gup assolvendoli - non potevano essere soci-complici dei Libergolis nel “clan dei montanari”.
Le intercettazioni a “Orti frenti” furono decisive per le condanne per mafia dei fratelli Libergolis. Quando gli atti processuali furono noti, il ruolo di confidenti di alcuni dei Romito (la “Gazzetta” ne scrisse per prima) divenne evidente. Il 9 marzo 2009 la corte d’assise di Foggia condannò i fratelli Libergolis; il 21 aprile successivo killer ignoti uccisero Franco Romito, uno degli uomini presenti al summit nella masseria: era cominciata la guerra tra gli ex soci.