FOGGIA - Questa è una storia di mafia. Di potere e morte. Di tradimenti e amore. Di leggenda e realtà processuale. Di un omicidio commesso per aver salva la vita ma anche per risparmiare all’amico la tortura. Questa è la storia dell’uomo che volle farsi re e morì decapitato, forse non solo metaforicamente. Questa è la storia della nascita della “Società foggiana”. E’ la storia di Giuseppe (Pinuccio) Laviano, classe ’61, boss nascente sfuggito 4 volte alla morte prima d’essere inghiottito dalla lupara bianca l’11 gennaio ’89, assassinato nella prima delle sette guerre della storia della mafia cittadina che vide il clan Rizzi-Moretti sterminare i rivali del gruppo Laviano: in 3 anni 8 morti, 1 scomparso, 4 agguati falliti, 1 sequestro di persona.
Tre anni prima di sparire, Laviano ringraziò per la prima di quattro volte la buona sorte sfuggendo a un agguato la mattina del 31 gennaio ’86, quando lui e un amico rimasero feriti dalle pistolettate esplose in una autodemolizione. Segnali di guerra che l’avrebbe visto soccombere e con lui amici e familiari. L’11 marzo gli spararono dentro casa ferendolo a una gamba; sdraiato nel letto di casa al rione San Pio X con la fasciatura ricordo della seconda preghiera al Cielo per non essere morto, Laviano ostentò tranquillità e a 2 cronisti rispose così: «Chi mi ha sparato? Qualche marito geloso».
La notte del primo maggio ’86, quando il clan Rizzi uccise 4 persone nel circolo Bacardi di piazza Mercato momento più tragico della prima guerra di mafia della “Società” che allora solo gli affiliati sapevano chiamarsi così, un altro commando di sicari provò inutilmente a entrare in casa di Laviano per assassinarlo: terzo tentativo fallito. Come il quarto, la sera del 14 dicembre ’88 quando Laviano libero da due settimane dopo aver scontato due anni per armi, rimase illeso mentre era in un bar insieme a Mario Mondelli assassinato. Incrociato dal cronista nel vecchio palazzo di Giustizia dove ora c’è l’università, Laviano non era più lo spavaldo che due anni prima scherzava di mariti gelosi: si trascinava quello che rimaneva della sua vita, sapendo che il conto alla rovescia scandiva gli ultimi rintocchi.
L’11 gennaio ’89 era un uomo sconfitto nella guerra di mala, quello che uscì di casa per raggiungere la stazione di San Severo e fuggire da Foggia e dai nemici. Da allora di lui non si seppe più nulla: un mese dopo la moglie ne denunciò la scomparsa. E la leggenda di mafia cominciò a nutrirsi: Laviano vittima della lupara bianca decapitato dai rivali che custodirono la foto della testa mozzata. Il mito divenne realtà processuale l’8 luglio 2005, 16 anni dopo la scomparsa: arrestati i boss Rocco Moretti, Vito Bruno Lanza, Salvatore Prencipe e il killer della mafia, Franco Vitagliani. Ergastolo a Foggia il 24 gennaio 2007; assolti Moretti, Lanza e Prencipe e carcere a vita confermato per Vitagliani in appello il 12 giugno 2008, sentenza definitiva. Vitagliani (sconta 5 ergastoli per altrettanti omicidi di mafia) uccise l’amico andandolo a prendere sotto casa e sparandogli in testa. Il tradimento fu il prezzo da pagare per non essere assassinato dal clan Rizzi-Moretti.
L’incarico consegnato a Vitagliani era quello di portare Laviano vivo ai nemici, ma non se la sentì di consegnarlo alle torture e gli sparò. Chissà se avrà mai letto “Uomini e topi” di Steinbeck, di George e Lennie, e di come sparare a un amico possa essere anche un atto d’amore.