«L’accampamento di cacicchi» è sulfurea definizione dalemiana risalente al 1997, riferita ai sindaci eletti direttamente. In seguito allargata ad alcuni presidenti di regione. L’intento era abbastanza dispregiativo. L’avversione di D’Alema era per leader non generati dalle alchimie delle segreterie di partito ma emersi per forza propria. In Puglia vanamente, a suo tempo, la sinistra «classica» tentò di ostacolare l’avvento di Nichi Vendola in sospetto di caciquismo anche se il suo curriculum era strettamente di partito.
Il Pd ha provato fino all’ultimo ad ostacolare la candidatura di Eugenio Giani in Toscana. Fosse anche lui un «cacique»?
A distanza di tempo si potrebbe dire «absit iniuria verbis» se il ruolo di Vincenzo De Luca in Campania e del pur ridimensionato Michele Emiliano non poco ha contato nel successo smagliante di Roberto Fico e di Antonio Decaro. Né va trascurato il buon risultato elettorale di Vendola al netto del regolamento elettorale che lo penalizza.
Mai si pensò di definire «cacique» Luca Zaia, indiscusso trionfatore di questa tornata elettorale. Né si potrebbe definire «cacique in pectore» Antonio Decaro.
Resta una banale constatazione: De Luca, Emiliano, Zaia, Vendola, Giani, Decaro hanno occupato lo spazio lasciato libero dalle tradizionali organizzazioni di partito in ritirata dal territorio. Forse sarebbe necessario controllare i contachilometri delle loro automobili. Quell’inesausto correre da una provincia all’altra delle loro regioni; calcolare il numero di parole scambiate, di strette di mano, di pacche sulle spalle. E di una buona conoscenza dei fabbisogni territoriali. E tutto questo non solo in campagna elettorale ma come semplice stile di vita, evidente codice di comportamento.
Può essere azzardato dire che De Luca, Emiliano, Zaia, Vendola, Giani, Decaro siano stati gli eroi di questa battaglia contro la disaffezione dal voto, contro l’astensionismo. Ancor più azzardato affermare che il non voto sia lo specchio dello spazio lasciato vuoto dai partiti asserragliati nei loro elettorati d’appartenenza in evidente discesa. Con l’avvertenza che sono i numeri veri e non le percentuali ad attestare lo stato di salute.
Resterebbe da chiedersi perché il vertice del Pd abbia esitato su Giani o si sia consumato in buffi duelli con De Luca e ancora nella straniante diatriba tra Emiliano e Decaro. Così come sembra incredibile che il Centro-destra pugliese abbia scoperto a pochi giorni dal voto che era necessario un candidato per la presidenza. Centrodestra irriconoscibile senza la leadership di Fitto, che pure è stato campione di impressionanti campagne elettorali.
Cosa importava ai campani della tenzone tra Schlein e De Luca? Ed ai pugliesi dello psicodramma Decaro-Emiliano o della diatriba che ha portato alla scelta dell’incolpevole Lobuono? Meno di niente. E qui sta il nodo della questione.
La verità è che i vincitori di questa tornata elettorale regionale sembrano sortiti dalla tradizione della Prima Repubblica: politici di lungo, lunghissimo corso con solida esperienza amministrativa e forti legami con il territorio. Altro che «cacicchi»!
















