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Riforma della giustizia: un passo in avanti dopo 40 anni di attesa

Riforma della giustizia: un passo in avanti dopo 40 anni di attesa

 
Biagio Marzo

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Biagio Marzo

Riforma della giustizia: un passo in avanti dopo 40 anni di attesa

Giuliano Vassalli, da lassù, può permettersi un sorriso compiaciuto: la riforma che aveva immaginato quasi quarant’anni fa - la separazione delle carriere tra magistratura requirente e giudicante - è finalmente giunta in porto

Lunedì 03 Novembre 2025, 13:59

Giuliano Vassalli, da lassù, può permettersi un sorriso compiaciuto: la riforma che aveva immaginato quasi quarant’anni fa - la separazione delle carriere tra magistratura requirente e giudicante - è finalmente giunta in porto.

Da ministro di Grazia e Giustizia, partigiano e medaglia d’argento al valor militare, Vassalli fu l’artefice del passaggio dal processo inquisitorio a quello accusatorio con il nuovo Codice di procedura penale del 1988, in cui la distinzione tra le carriere era prevista come naturale completamento della riforma. All’epoca mancò il passaggio costituzionale; oggi, con il voto del 30 ottobre 2025, quel tassello è stato inserito. Ci è voluto un governo di centrodestra per chiudere il cerchio, ma non dire gatto se non l’hai nel sacco: la riforma dovrà superare il referendum confermativo della prossima primavera. Trasformarlo in un derby tra maggioranza e opposizione sarebbe un errore di grammatica politica per entrambe.

La separazione delle carriere è stata votata dal centrodestra, ma non è «proprietà privata» del governo: numerose personalità riformiste, liberali e garantiste - fuori e dentro il Parlamento - sosterranno il «Sì», organizzando comitati trasversali. Nel centrodestra, Forza Italia è sempre stata la forza più coerente sulla riforma della giustizia; Lega e Fratelli d’Italia hanno concentrato le energie su autonomia differenziata e premierato. Entrambe le riforme, però, sono oggi in stallo a metà legislatura, e non è affatto scontato che giungano a compimento entro le politiche del 2027. Il premierato, semmai, potrà riprendere il suo iter solo in caso di riconferma di Giorgia Meloni. La presidente del Consiglio commetterebbe un errore politico e strategico se rivendicasse la riforma come bandiera esclusiva del centrodestra: rischierebbe di ricompattare un fronte del «No» che oggi è diviso.

Sul fronte opposto, Elly Schlein ha spostato il profilo del Partito Democratico verso il giustizialismo, abbandonando il garantismo riformista che fu di personalità come Vassalli, Calamandrei e lo stesso D’Alema. Eppure, la separazione delle carriere non è mai stata un tabù della sinistra: nella Bicamerale del 1997, presieduta da D’Alema, venne proposta. E nel 2019, la mozione Martina alle primarie del PD - sottoscritta anche da Debora Serracchiani, oggi responsabile giustizia del partito - affermava testualmente: «Il tema della separazione delle carriere appare ineludibile per garantire un giudice terzo e imparziale». Analoga evoluzione ha riguardato la Cgil: storicamente riformista e garantista, oggi si ritrova appiattita sulla linea del nuovo PD, oscillando tra il ruolo di spalla e quello di regista politico.

La sinistra italiana, nel suo Dna, aveva lo Stato di diritto; il giustizialismo fu una deviazione nata negli anni di piombo, quando la lotta al terrorismo creò un cortocircuito culturale tra emergenza e diritto. Da allora si consolidò un legame organico con il «partito delle procure», esploso nel 1992-94 con Mani pulite. Ma tanto tuonò che non piovve: il sistema politico non fu rifondato, e il Paese tornò al punto di partenza. I referendum costituzionali del 2006 (Berlusconi) e del 2016 (Renzi) naufragarono, lasciando intatti equilibri ormai logori. Renzi, oggi senatore, sulla separazione delle carriere si è astenuto: un atto presentato come «equilibrato», ma in realtà una perfetta lavata di mani. Votare «No» avrebbe sconfessato la propria storia di garantista perseguitato dalla magistratura; votare «Sì» lo avrebbe esposto alla scomunica della sinistra giustizialista. Così ha scelto la via di mezzo: come l’asino di Buridano, ha finito per tradire tutti. E soprattutto se stesso.

Quanto all’Anm, il suo comportamento è ormai apertamente politico. Lo scontro frontale con Parlamento e governo non difende l’indipendenza della magistratura - che nessuno ha messo in discussione - ma il suo potere corporativo. Il vero nodo non è la separazione delle carriere, ma la fine del monopolio del Csm, con l’istituzione di due distinti Consigli e della nuova Alta Corte disciplinare. Il libro Il Sistema, di Alessandro Sallusti e Luca Palamara, ha scoperchiato una realtà che non è più occultabile: il controllo delle nomine, il peso delle correnti, il rapporto di scambio tra politica e toghe.

La maggioranza ha ora il dovere di non trasformare la riforma in una rivincita; la giustizia non è uno stadio, e non servono curve. L’opposizione, dal canto suo, smetta di evocare la fine della democrazia: in Italia la libertà di parola è intatta, nessun giornale è stato chiuso, nessun magistrato imbavagliato, nessun cittadino privato del diritto di critica. L’indipendenza della magistratura non è in discussione: è in discussione la sua irresponsabilità. Forse Giuliano Vassalli sorride perché sa che una democrazia non vive di atti fondativi solenni, ma di correzioni di rotta lunghe, controverse, spesso impopolari. La sua riforma ha impiegato quasi quarant’anni per compiersi: segno che la giustizia, in Italia, non è mai stata solo questione giuridica, ma terreno simbolico, ideologico, identitario. Ora la parola passa ai cittadini. Non per decidere chi ha vinto, ma per stabilire se lo Stato di diritto - quello per cui Vassalli rischiò la vita da giovane partigiano - debba restare un principio, o finalmente diventare un sistema.

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