Venerdì 31 Ottobre 2025 | 20:05

Il «prestito d'onore», una soluzione per cambiare il futuro dei giovani

Il «prestito d'onore», una soluzione per cambiare il futuro dei giovani

 
Nicola Didonna

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Nicola Didonna

Il «prestito d'onore», una soluzione per cambiare il futuro dei giovani

La situazione del lavoro giovanile potremmo sintetizzarla prendendo spunto da un vecchio proverbio: se il mondo dei giovani piange, quello delle imprese non ride

Venerdì 31 Ottobre 2025, 12:59

La situazione del lavoro giovanile potremmo sintetizzarla prendendo spunto da un vecchio proverbio: se il mondo dei giovani piange, quello delle imprese non ride. Il primo, vittima di un sistema scolastico prima e di quello della formazione dopo che sembrano abitare su Marte; il secondo, costretto ad un atavico mismatch fra domanda e qualità dell’offerta per il personale dipendente. Il tutto in un clima di torpore generale in cui sembriamo ormai assuefatti a sopportare il numero sproporzionato di giovani «Neet» (Not in Education, Employment or Training); in pratica coloro che non studiano, non lavorano e nemmeno si formano e gravano, tanto per cambiare, sul welfare assicurato dal «sistema famiglia».

Invece di inseguire improbabili tesoretti del sistema bancario, potremmo fare qualcosa per rendere veramente autodeterminati i nostri giovani valenti? Basterebbe, come suggeriva il liberista Milton Friedman, premio Nobel per l’economia nel lontano 1976, offrire libera scelta agli studenti circa la struttura formativa da frequentare. Offrire loro dei buoni e in questo modo la sana competizione fra università farebbe il resto; non ci sarebbero roccaforti pubbliche di baroni arroccate e spesso inefficienti e le strutture private più performanti non sarebbero dedicate solo a chi può permettersi di pagare laute rette. Basterebbe incrementare i posti letto negli studentati e ridurre il gap nell’offerta che nemmeno i fondi Pnrr sembrano essere in grado di annullare.

Ma senza stravolgere il sistema si potrebbe incentivare anche gli strumenti ormai in uso nel resto del mondo come il «prestito d’onore». È una forma di finanziamento agevolato erogato a favore di qualsiasi studente distintosi nel proprio percorso formativo; indipendentemente dalla famiglia e dal censo. Hai dimostrato di essere bravo? Ti premio con un finanziamento agevolato con cui potrai affrontare le spese e che potrai rimborsare in un tot numero di anni decorrenti dal primo giorno di lavoro. Secondo un rapporto di Eurydice tali tipi di finanziamenti esistono in 2/3 degli Stati europei. In Gran Bretagna sono usati dal 90% degli studenti e nei Paesi Bassi dal 50%. In Italia e in Francia meno dell’1% degli studenti ne usufruisce. Mentre nel Regno Unito i prestiti sono erogati direttamente dallo Stato, in Francia e Italia vengono meramente garantiti dallo Stato e «non erogati» dal sistema bancario. Ecco dove casca l’asino; come sempre una cosa è la garanzia, peraltro «solo al 70% con le recenti modifiche, altro è sperare che un istituto di credito consideri un affare finanziare un semplice studente e per di più senza una famiglia disposta a garantire.

Così diversi sono gli Istituti di credito italiani che «vantano» convenzioni con Consap a valere sul Fondo per lo Studio costituito nel lontano 2010 e recentemente rifinanziato; Intesa San Paolo, Unicredit, Banca Sella. Permettono anche ammortamenti di durata sino a 30 anni per finanziamenti fino a 50 mila euro per studi in Italia o 70 mila per l’estero. Ma ben più scarsi sono i risultati sotto gli occhi di tutti: 1% di utilizzatori. O abbiamo un esercito di «ciucci» oppure il sistema non gira come dovrebbe. Il restante 99% degli studenti continueranno a dover essere considerati «bamboccioni» sulle spalle delle famiglie.

In Puglia il tasso di Neet, sebbene in calo negli ultimi tempi, è fra i più alti d’Italia, attestandosi intorno al 21% contro una media Italia del 15%. Le vittime sono i giovani ma il carnefice è l’intero sistema. Le principali determinanti sono: bassa scolarizzazione, formazione non allineata alle esigenze del mondo delle imprese, fragilità del mercato del lavoro, povertà familiare sempre più in crescita.

La prima, la bassa scolarizzazione, è attestata da un report del 2025 a cura della Commissione Europea, «Investing in education». Vantiamo, si fa per dire, il peggior rapporto fra spesa in istruzione e spesa pubblica; siamo con il 7,3%, al ventisettesimo posto, l’ultimo, con una media UE del 9,6%. Ai primi posti Estonia e Svezia con il 14,5%, praticamente il doppio rispetto all’Italia! I nostri investimenti mediamente consistenti nell’infanzia e nella scuola secondaria, risultano particolarmente deficitari nell’istruzione terziaria universitaria, proprio quella alle porte del mondo del lavoro. Però le proiezioni al 2030, grazie al vulnus della denatalità, sembrano almeno premiarci; se la spesa pubblica e il PIL dovesse restare uguali in termini assoluti potremmo balzare addirittura al primo posto raggiungendo il 15% per spesa pro-capite. Come dire, non tutti i mali vengono per nuocere, almeno in questo caso.

La seconda causa, la inadeguatezza della formazione, è sotto gli occhi di tutti. Le imprese si lamentano e i giovani ci rinunciano. Stanno cercando di dare un risposta negli ultimi anni gli Its, gli Istituti Tecnici Superiori e le Università private, ma il gap accumulato negli anni e la velocità dell’innovazione non remano a favore. Bisognerebbe «far formare» i giovani a chi li deve utilizzare: le imprese. Bisognerebbe abbandonare l’idea di delega ad un sistema formativo che ha aiutato più se stesso a lavorare che i giovani a trovare un lavoro. Una collaborazione più stretta fra scuola, aziende, parti sociali e regioni potrebbe essere più efficace; anche per la formazione continua sul posto di lavoro, non solo per l’ingresso, perché ormai l’aggiornamento costante è essenziale per evitare le crisi aziendali e le fuoriuscite drammatiche.

In questa situazione trova terreno fertile anche la terza determinante del numero dei «nostri Neet»: la fragilità del mercato del lavoro che si incrocia anche con il rallentamento degli investimenti da parte delle imprese. Infatti quest’ultime, in un clima di incertezza economica crescente e con una politica industriale spesso latitante e incerta, preferiscono più assumere eventualmente sottoccupati che fare investimenti in innovazione. Mi rendo conto che è un autogol pensare di poter sostituire investimenti con braccia umane, ma il «lavoro povero» è la triste realtà che testimonia la corsa al ribasso nel mondo del lavoro. Quando l’offerta abbonda può risultare più conveniente scegliere di non investire in innovazione.

E arriviamo all’ultima causa: la povertà in genere in costante aumento e quella familiare in particolare. Formare bene costa. Non solo la struttura formativa ma anche tutto ciò che è connesso ad essa: tasse universitarie, alloggi, vitto, viaggi, libri, ecc. Ma stranamente nulla si fa per invertire la rotta. Il prestito d’onore non è l’uovo di Colombo, ma al momento appare l’unica soluzione. Sono certo che ne guadagnerebbero i giovani in autostima, la società in sana crescita e finalmente il numero di Neet che sarebbe inevitabilmente destinato a ridursi drasticamente.

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