Sabato 01 Novembre 2025 | 17:31

Altro che «pronto?» Il silenzio digitale ha ucciso le telefonate

Altro che «pronto?» Il silenzio digitale ha ucciso le telefonate

 
Francesco Caroli

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Francesco Caroli

Altro che «pronto?» Il silenzio digitale ha ucciso le telefonate

Secondo molti studi, infatti, soprattutto i giovani reputano la telefonata invadente, quasi un’intrusione nel proprio spazio personale

Sabato 01 Novembre 2025, 13:33

«Una telefonata allunga la vita». Recitava così un celebre spot degli anni Novanta, anche se sembra passata un’era - di sicuro digitale. Secondo molti studi, infatti, soprattutto i giovani reputano la telefonata invadente, quasi un’intrusione nel proprio spazio personale.

In molti uffici, oggi, una chiamata genera più ansia che curiosità. E tra i più giovani, anche il semplice «pronto?» sembra un gesto d’altri tempi. Circa il 40% dei giovani britannici tra i 18 e i 24 anni ritiene accettabile rispondere a una chiamata senza alcun saluto (Financial Times, 2025). È un dettaglio linguistico, ma rivela una trasformazione più profonda: quella dei codici comunicativi e delle relazioni interpersonali mediate dal telefono.

In Italia il fenomeno segue la stessa direzione. Il 62% dei giovani tra 18 e 30 anni prova disagio nel rispondere a chiamate non pianificate, e uno su tre dichiara di aver «perso l’abitudine» a parlare al telefono (Doxa–Ipsos, Digital Habits, 2023). Allo stesso tempo, in Europa il 73% dei cittadini usa quotidianamente app di messaggistica istantanea, mentre solo il 32% effettua telefonate vocali tradizionali (Eurostat, DESI, 2024). Il telefono, un tempo simbolo di presenza e connessione, oggi è percepito come un’invasione. Secondo la Harvard Business Review, il 67% degli intervistati preferisce la chat «per non sbagliare tono» (HBR, 2023). Il Censis parla apertamente di una «società senza voce»: l’uso quotidiano della parola orale è calato del 21% in dieci anni, sostituito da interazioni digitali scritte o multimediali (Rapporto sulla Comunicazione, 2024). Non è solo un effetto della tecnologia, ma un segnale culturale: parlare al telefono significava gestire silenzi, leggere pause, intuire esitazioni. Oggi la voce è sostituita da emoji e spunte blu, e la grammatica emotiva si riduce a segni predefiniti.

Eppure non è passato molto tempo da quando la voce era un ponte che attraversava l’assenza. Nelle case dei pugliesi la telefonata serale - o quella della domenica - era un rito: il momento in cui gli emigrati in Svizzera, Germania o al Nord chiamavano i genitori rimasti al paese. Bastava sentire «Ciao mà, come state?» per sciogliere giorni di nostalgia. Dall’altra parte del filo si sentivano i rumori della cucina, il vociare dei bambini, la vita che continuava. Quelle voci non portavano solo notizie, ma la certezza di appartenere ancora a qualcuno. Era una forma primitiva ma potentissima di welfare affettivo.

Oggi che comunichiamo di più ma ci parliamo di meno, quella semplicità sembra lontana. Il nostro linguaggio digitale ha guadagnato efficienza ma ha perso calore. Nel mondo del lavoro questa distanza è evidente: chi telefona «per chiarire» e chi trova la chiamata un atto invadente. Ma dietro questo scontro generazionale si nasconde qualcosa di più profondo: una società che comunica di più ma si ascolta di meno.

Le città, le scuole e i luoghi di lavoro dovrebbero tornare a educare alla voce, al confronto, all’ascolto. Una comunità che non si parla rischia di non riconoscersi più. Il silenzio digitale non è neutro: erode la fiducia, disabitua all’empatia. E c’è anche un tema di salute pubblica. La voce resta uno strumento di cura: riconosce, consola, restituisce presenza. Nella prevenzione del disagio mentale, come ricorda l’Oms (WHO Europe, Mental Health in the Digital Era, 2024), le relazioni significative sono una delle risorse più potenti.

Non è solo un cambio di costume: la qualità delle relazioni è un indicatore di salute e di democrazia. Ascoltare, dialogare, rispondere - anche al telefono - sono gesti che fondano la cittadinanza tanto quanto votare o partecipare. Forse, allora, dovremmo tornare a dire «pronto?» non per nostalgia, ma perché, in fondo, fa davvero bene.

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