E la nave va. La super portaerei a propulsione nucleare Gerald Ford, la numero uno della marina americana (USN) e del mondo è in viaggio verso i Caraibi. La minaccia davanti alle coste del Venezuela aumenta e non è un film.
Nel capolavoro di Fellini, E la nave va, la visione surreale del regista sceglieva una nave quale metafora dell’umanità alla deriva, smarrita, in un tempo melodrammatico e grottesco nella morsa di una guerra imminente e della minaccia nucleare. Più di quarant’anni dopo, sembra proprio di stare su quella nave e nel bel mezzo di quella minaccia. Tuttavia, coltivando la speranza che ci si possa ancora salvare, già che del piroscafo di Fellini, finito a picco, restarono in mare dei sopravvissuti.
Il presidente Trump, il più imprevedibile autocrate del momento (secondo la Madmantheory, la «teoria del pazzo», abile a fingersi irrazionale per ottenere ciò che vuole, alzando sempre di più il livello della minaccia), ha disposto una sorta di assedio navale di fronte alle coste venezuelane, dopo aver colpito e affondato con la sua aviazione, dagli inizi di settembre, oltre una decina di barchini nelle acque caraibiche. Erano sospettati di trasportare droga verso gli Stati Uniti. Debole tuttavia la motivazione, già che manca qualsiasi prova di quanto lui afferma (la più importante piattaforma logistica dei narcos in Sudamerica è diventato l’Ecuador e le rotte più gettonate della droga passano dal Pacifico), ma di sicuro illegale l’azione, neanche approvata dal Congresso a Washington, che intanto ha provocato una sessantina di morti senza identità, né tantomeno dissimulata l’intenzione: per Trump, il regime di Maduro è a fine corsa, il dittatore venezuelano deve andarsene. Se rifiuta, quel Paese sarà messo a ferro e fuoco e sarà caccia all’uomo. Sulla testa di Maduro, pende una taglia di 50 milioni di dollari. Ma il dittatore potrebbe essere già fuggito.
La notizia, priva di qualsiasi verifica, è arrivata al momento in cui scriviamo, pare che Maduro sia terribilmente spaventato. L’uomo, definito da Trump «narcoterrorista» - aggettivo forte, privo di riscontri fattuali o di motivazioni etiche, che possano affiancare i soliti interessi economici e geopolitici, cui la nuova amministrazione americana ci ha abituato - aveva subito chiesto aiuto a Putin, a Kamenei e a Xi Jinping, ma loro avevano risposto tiepidi. Potrebbe essere già pronta la «successora», la Maria Corina Machado, esponetene di destra dell’élite industriale venezuelana, fresca del premio Nobel per la pace, attribuitole quasi in compensazione dal comitato di Stoccolma, dopo le pressanti e impossibili insistenze di Trump, da lei dedicato con enfasi proprio a Trump, di cui ha sollecitato un intervento risolutivo nel suo paese.
L’Intervento, ancora non c’è stato, Trump dopo averlo annunciato, lo ha smentito. Considerate però le tante armi e le migliaia di uomini fatti convergere nell’area, cosa ci si può aspettare?
Una cronaca - come si vede - che accavalla indiscrezioni a ritmo frenetico e notizie apparentemente distanti. Proviamo a mettere in fila i fatti e le valutazioni, anche se a colpo d’occhio l’impiego della forza in un mondo super armato - per portare la pace, come Trump sostiene - in questo caso sembrerebbe dargli ragione.
Maduro, il dittatore venezuelano, è stato rieletto lo scorso anno con una maggioranza schiacciante in un’elezione taroccata, segnata dalle intimidazioni e dalla violenza. Al potere dal 2013, delfino del presidente Chávez, nel solco infangato della dottrina socialista di Simon Bolivar, nonostante le promesse, ha precipitato il suo Paese, che negli anni 70 era il più ricco del Sudamerica, in una dittatura feroce, segnata da una devastante crisi economica. Le carceri sono piene di dissidenti, si praticano torture, rapimenti, stupri, dilaga la corruzione – ragioni per le quali il Brasile di Lula ha messo il veto al suo ingresso nel Brics, l’organizzazione antagonista degli Stati Uniti, in forte crescita - si aggiungono la povertà assoluta per oltre la metà della popolazione, l’inflazione alle stelle e il rafforzamento di un asse politico-militare privilegiato con l’Iran di Kamenei, ma anche con la Russia di Putin. Il paese, peraltro, è strategico nella visione economica cinese, che dal 2015 ha stabilito accordi commerciali con il Celac, la Comunità degli Stati Latinoamericani e dell’area caraibica, in continua espansione miliardaria. E proprio il Venezuela è il primo fornitore di petrolio della Cina, che importa anche minerali preziosi.
La riedizione della dottrina Monroe di due secoli fa, evocata a proposito di quanto sta accadendo - ovvero il principio dell’America agli americani, espresso dal presidente James Monroe nel 1823, che escludeva qualsiasi interferenza allora degli europei, oggi da estendere ai gradi players internazionali, Cina e Russia in testa - trova riscontro. Ed è altrettanto facile stabilire un parallelo tra le prove tecniche di guerra in corso nel Mar dei Caraibi e davanti alle coste venezuelane (poi chissà: Colombia, Brasile, ecc;) e le aggressioni imperialiste degli Stati Uniti prima e dopo la seconda guerra mondiale. Dal Guatemala nel 1954, per arrivare al colpo di stato in Cile nel ‘73, dopo essere passati da quello in Brasile nel ‘64, senza dimenticare le sanguinose operazioni della Cia in Centroamerica.
La storia si ripete. Allora i nemici erano chiamati comunisti, oggi sono i narcos e gli immigrati. Per accaparrarsi risorse e creare sfere d’influenza, anche oggi, un presidente americano, dà il via ad azioni della Cia sotto copertura e sotto la responsabilità di un Segretario di Stato. L’attuale direttore dell’agenzia, John Ratcliffe promette che la sua azione sarà aggressiva più che mai e che «eseguendo gli ordini di Trump, la Cia andrà in luoghi dove nessuno può andare e farà cose che nessun altro può fare». Lo scriveva il New York Times, un paio di settimane fa, precisando che l’Agenzia si era rifiutata di rilasciare dichiarazioni. Chiarimenti che mancano anche sulla recentissima carneficina di Rio de Janeiro, nel cuore delle favelas di Penha e do Alemao. Secondo l’agenzia AFP, una pista porterebbe a Washington. Il governatore dello stato brasiliano di Rio, Claudio Castro, fedelissimo dell’ex presidente, oggi agli arresti domiciliari Javer Bolsonaro, amico personale di Trump, condannato a 27 anni di carcere per tentato golpe e altri reati, avrebbe inviato alla Casa Bianca un dossier riservato sul raid, costato la vita a 138 persone nell’operazione anti-narcos sferrata da 2500 poliziotti, che ha lasciato invece all’oscuro il governo di Lula. «Un macabro show montato sui morti e le lacrime di tante madri….una strage a fini elettorali, pianificata politicamente» – i commenti a livello federale si sono moltiplicati. Ma siamo solo al principio. Si sommano i segnali fortissimi, che preoccupano. Trump ha annunciato che diminuirà il presidio americano sul fronte orientale della Nato in Europa e ha minacciato di riprendere i test nucleari sospesi dagli anni ’90, facendo come la Russia e la Cina, che però non lo fanno. Non è ammesso però il contraddittorio. Continua con gli annunci, che poi smentisce e procede diritto sulla strada che ha scelto, dove i suoi nemici personali diventano i nemici dell’America. B2B è il suo mantra. Business-to-business, quasi che il governo fosse un rapporto tra aziende, dove prevale quella più forte. Qualsiasi ipotesi di multilateralismo, benché utile agli equilibri complessivi, non lo riguarda. Il tycoon sta alimentando un incendio pericoloso, in quel giardino di casa, come gli americani chiamano le Americhe, probabilmente per testare le reazioni russe e cinesi in uno scenario distante per cultura e latitudine, portando a casa nuovi equilibri, forse, di sicuro nuovi contratti. E poi? Il Pacifico non è dall’altra parte del mondo, anzi rischia di diventare troppo vicino. Continuare ad assecondarlo, oltre che pericoloso, diventa inutile.
















