L’obiettivo di seppellire la tragedia di Gaza con i suoi morti, nel trionfo di società rese indifferenti da politiche oramai insensibili all’umanità, che esibiscono senza vergogna i propri interessi, nel circolo esclusivo del potere, ha raggiunto l’effetto opposto. La mobilitazione pro Gaza, rimasta isolata per due anni, dilaga ormai a latitudini diverse, sale di livello, unisce culture lontane, arriva perfino in Australia. Al tempo delle oligarchie, si rianima il senso dei popoli, custodi della democrazia, mentre i governi sono costretti a tenerne conto. Si è arrivati a evocare le proteste di quasi sessant’anni fa, contro la guerra in Vietnam.
Ma l’onda è più lunga. Dalle università occidentali alle piazze arabe - si è aggiunto il mondo del lavoro, dunque le varie espressioni della società, nelle differenze di età e di genere - è aumentata la partecipazione anche delle associazioni sociali, oltre al volontariato, sia europee sia soprattutto italiane. A New York, il vuoto ha incorniciato il discorso del premier israeliano, nell’immensa sala abbandonata dai delegati nel Palazzo di Vetro dell’Onu; un pugno di attivisti di quaranta nazionalità diverse, sulle barche della Global Sumud Flotilla, lasciati a terra gli indecisi, navigano con cinquanta imbarcazioni di legno verso le coste di Gaza.
È una missionimpossible, disarmata, povera di mezzi, che sicuramente aggiungerà nuove tensioni, che può apparire come una «ragazzata avventata», ma che annichilisce il cinismo e mette a nudo l’ipocrisia. Lo scopo di portare aiuti al popolo palestinese non è il solo - non sbaglia chi accusa e denigra la Flotilla, parlando di scopo politico - ma cosa c’entrano le logiche di parte? È di parte rischiare la vita per muovere l’inerzia dei governi dinanzi a un genocidio? O provare ad aprire corridoi umanitari, rimasti chiusi per mesi? E porre fine all’assassinio di civili inermi, cercando una soluzione di giustizia?
Nel «mischione» di immagini e di frammenti di notizie, che ogni giorno sovrappongono gli scenari e i temi: dall’Ucraina sotto i bombardamenti sempre più massicci dell’aviazione russa, ai droni che minacciano i cieli europei, alternati alla frenesia delle inattendibili esternazioni del presidente Trump, mentre si alternano colpi di racchette straordinari e tiri di pallone che bucano le reti, nel mix di trasmissioni spazzatura con ospiti improbabili, Gaza rappresenta quel momento decisivo che può riscattare l’umanità, imponendola sulle barbarie, contro la forza che annienta la ragione. Un’occasione preziosa e un link tra le generazioni, che unisce le passioni.
Vale per quel che vale la consapevolezza che i mercati speculano e speculeranno, continuando a procurare ricchezze sulle tragedie o che il trading segua le sue logiche, che sono state e resteranno le stesse nel passaggio dei secoli, mentre il potere prosegue nei suoi calcoli in una politica diventata messianica (a braccetto con le religioni): il banco di prova del costo dei principi non cambia.
La settimana scorsa, Steve Witkoff, l’inviato speciale degli Stati Uniti per il Medioriente, aveva parlato della necessità di risolvere la questione palestinese «in un modo o nell’altro, entro la fine dell’anno» ed aveva accennato ad «un piano molto completo» dell’amministrazione Trump. Ora se ne sa qualcosa di più. Il presidente non rinuncia al suo ruolo di attore per una «pace permanente e duratura». D’altra parte, è convinto di poter aspirare al Nobel per la Pace ed è l’unico ad avere un ascendente sul premier Netanyahu. Non importa che Bibi nel suo intervento all’Onu abbia affermato che la guerra continuerà «fino alla totale distruzione del nemico… e che non nascerà mai uno stato terrorista palestinese».
Trump, a margine dell’Assemblea di New York, è andato avanti. Come stabilito, ha illustrato il suo piano al mondo arabo. Ventuno punti. Tra i principali: dovrebbe fermarsi la pulizia etnica dei palestinesi, confinati dai tank e dalle bombe israeliane nel Sud della Striscia, nell’alternativa indicata dal ministro fondamentalista Smotric: «andarsene o morire»; dovrebbe finire l’occupazione dei territori palestinesi da parte dell’esercito israeliano e da escludersi l’annessione della Cisgiordania, votata dalla Knesset, il parlamento di Tel Aviv; verrebbe chiusa l’HumanitarianFoundation, l’istituzione condivisa dagli americani e dagli israeliani per la distribuzione del cibo, che al pane ha sostituito le pallottole, restituendo ruolo alle Ong internazionali; Hamas sarebbe smilitarizzata e dovrebbe definitivamente abbandonare la Palestina, rilasciando tutti gli ostaggi in cambio di un salvacondotto e della liberazione di mille prigionieri palestinesi; forze internazionali occidentali e arabe garantirebbero una fase di stabilizzazione in attesa di un nuovo governo, non è ben chiaro formato come e da chi.
Il piano sta girando e provoca reazioni contrapposte e forti, benché i guerriglieri di Hamas dichiarino di non averlo ancora ricevuto. È dura per Israele rinunciare al progetto di uno Stato che vada «dal fiume (il Giordano) al mare», con i familiari degli ostaggi però irriducibili nella battaglia per la vita dei propri cari, che tornano ad aggrapparsi alla speranza.
Un piano realizzabile? Chissà. Di sicuro, però, mentre continua l’avanzata dei tank e mentre continuano a cadere le bombe che uccidono, oltre alla fame, sono in corso «prove tecniche di soluzione», che potrebbero portare ad una svolta, quanto prossima alla giustizia è presto per dirlo.
L’America di Trump, attenta ai sondaggi e consapevole del progressivo isolamento, provocato dalla filosofia MAGA, (Make America Great Again) che interpreta, potrebbe perfino darsi l’obiettivo di fermare intanto la guerra in Medioriente - obiettivo di prestigio e sulla carta più abbordabile della fine della guerra in Ucraina, l’altro fronte che si dilata - continuando a portare avanti indisturbata il grande business della ricostruzione di Gaza. Si sta lavorando al progetto condiviso con gli arabi e con gli israeliani. Nelle scorse settimane, alla Casa Bianca, si è riunito un comitato d’affari, alla guida del quale ci sarebbe l’ex premier britannico, Tony Blair e la sua fondazione «Global Change», che ha relazioni con i leader politici di tutto il mondo per guidare il cambiamento. «Tutto resta com’è» - commentava amaro il principe di Salina ne Il Gattopardo, uscendo di scena. E allora? L’energia pulita di chi accetta il rischio e si batte per i diritti spinge le soluzioni. Può non raggiungerle, ma fa la storia.