Dall’educazione familiare al lavoro, senza parità perdiamo capitale umano, produttività e benessere sociale.
La domanda «la colpa è delle donne?» torna spesso, come se fossero loro le uniche responsabili delle fragilità educative dei figli, della dipendenza affettiva degli uomini o persino della violenza. Ma questa lettura ignora le radici culturali e sociali delle disuguaglianze. I figli crescono osservando madri oberate e padri distanti, e interiorizzano un modello sbilanciato che rischia di riprodursi. Non è una questione di madri che «non educano» o di padri «esclusi», ma di un sistema che costruisce ruoli rigidi e penalizza entrambi.
Le evidenze scientifiche lo dimostrano: quando i padri interiorizzano convinzioni tradizionali sui ruoli, il loro coinvolgimento educativo diminuisce e cresce il rischio di comportamenti aggressivi. Allo stesso tempo, le madri interiorizzano la pressione dell’intensive parenting, sentendosi responsabili di tutto, mentre ai padri è concesso di essere «troppo stanchi» per occuparsi della casa. Questo doppio standard alimenta frustrazione, conflitto e diseguaglianza.
Il divario non riguarda solo la sfera privata. I dati del Rapporto annuale 2023-24 dell’Agenda di Genere della Regione Puglia raccontano con chiarezza che il problema è sistemico: la popolazione attiva femminile è appena il 37% contro il 64% maschile. Il divario retributivo resta marcato, con salari inferiori del 27% per le donne e del 17% per gli uomini. Più della metà delle imprese non fornisce dati completi, segno di un sommerso che colpisce soprattutto le lavoratrici. E mentre le donne conseguono titoli universitari in misura crescente, compresi quelli Stem, il loro ingresso e la loro permanenza nel mercato del lavoro restano precari, con tassi alti di part-time involontario e di mancata partecipazione. È un paradosso: successo formativo, ma svantaggio occupazionale. Così la Regione perde produttività e capitale umano prezioso.
L’Agenda di Genere, percorso avviato nel 2021, unico documento strategico del genere tra le Regioni italiane, avvia un percorso partecipativo: tavoli, monitoraggi, 60 schede operative ispirate agli obiettivi Onu 2030. Non solo numeri, ma azioni concrete per rimuovere le diseguaglianze. La consigliera regionale di parità ha il compito non solo di vigilare, ma di proporre azioni positive, fissando un «livello essenziale minimo di parità». E il lavoro parte anche dalla comunicazione: basta convegni tutti al maschile, basta linguaggi esclusivi. Campagne come #contareperparlare, ispirate a #NoWomenNoPanel, dicono che la parità passa anche dalla visibilità e dalle parole.
Il messaggio è chiaro: l’organizzazione del lavoro e delle relazioni non può restare ancorata al modello maschile. Rimuovere le disuguaglianze significa ridare valore alle donne, ma anche benessere collettivo. L’apporto femminile ha già dimostrato di generare benefici diffusi, in famiglia come nell’economia. Attribuire la colpa alle donne è un alibi sterile: la responsabilità è condivisa, e il cambiamento richiede politiche, cultura e coraggio di ripensare insieme un modello nuovo.