Il 3 settembre 2025 passerà inosservato ai più, eppure è una data che unisce due epidemie – una fitosanitaria, l’altra zootecnica – che si sono ritrovate sul banco degli imputati, ma non per essere combattute. A finire sotto giudizio sono state infatti le uniche misure efficaci per contrastarle: l’abbattimento delle piante infette da Xylella in Puglia e quello dei bovini colpiti dalla dermatite nodulare in Sardegna.
Due date, due ricorsi, due tribunali. A Bari, il TAR valuterà l’ennesimo blocco al piano di eradicazione della Xylella di alcune piante infette rinvenute a Triggiano. A Roma, il Consiglio di Stato deciderà se confermare la sospensione dell’abbattimento dei capi bovini in un allevamento di Sarule. E intanto, i focolai si espandono. La malattia corre, la produzione si ferma, la scienza arretra. Non per mancanza di conoscenze, ma per eccesso di diffidenza giudiziaria. Dal 21 giugno 2025, giorno in cui è comparsa la dermatite nodulare bovina in Sardegna nella zona di Nuovo, in poche ore 52 comuni, tra Macomer, Nuoro, Siniscola e Sorgono, risultavano già coinvolti dalle restrizioni.
È già accaduto per la Xylella. I ritardi nell’abbattimento delle piante infette, causati anche da ricorsi a raffica, hanno permesso al batterio di dilagare, compromettendo milioni di ulivi e l’intero assetto economico e paesaggistico del Salento. Il Ministro Lollobrigida è dovuto intervenire stanziando 300 milioni di euro nel decreto ColtivaItalia per il ripristino del potenziale produttivo olivicolo. Ora rischiamo di replicare lo stesso schema con la dermatite nodulare bovina. Una malattia virale che non colpisce l’uomo ma si trasmette rapidamente fra gli animali attraverso insetti ematofagi. E che, come è noto in tutto il mondo, si può fermare solo con l’abbattimento tempestivo dei capi negli allevamenti colpiti e con una vaccinazione a tappeto come scritto nel piano emergenziale approvato dal Ministro Schillaci.
Ma se la magistratura blocca queste misure per presunte irregolarità amministrative, l’effetto finale non è una maggiore tutela dei cittadini. È, paradossalmente, la messa a rischio dell’intero settore colpito, con danni ben più gravi e duraturi. A pagarne il prezzo saranno gli allevatori, i produttori, i territori.
Non si tratta di criminalizzare il ruolo dei giudici. Ma è giunto il momento di interrogarsi seriamente su cosa stia accadendo quando il potere giudiziario, invece di garantire la legalità delle scelte pubbliche, finisce per annullarne gli effetti con tempismo chirurgico. La scienza costruisce piani rigorosi per contenere i focolai, ma basta un ricorso ben confezionato per far saltare tutto. E la conseguenza è che si annulla la forza stessa delle istituzioni.
Le epidemie non aspettano. I virus, i batteri, i vettori non hanno il tempo della burocrazia giudiziaria. E quando il diritto rallenta o blocca l’azione sanitaria, non si tutela il cittadino: lo si espone al danno. Lo si tradisce. Quando la giustizia sospende l’azione sanitaria, non difende il cittadino: lo espone. E questa esposizione, già vista per la Xylella, rischia di compromettere ora anche l’allevamento sardo.
Il punto non è negare il ruolo della magistratura. Ma riconoscere che l’intervento giudiziario, se arriva fuori tempo massimo, quando le decisioni sono già state prese in coerenza con norme nazionali ed europee, produce più danni che benefici. Perché una cosa è garantire il rispetto delle regole, un’altra è mettere in discussione – a posteriori e nel pieno dell’emergenza – piani costruiti su basi scientifiche e già approvati dal decisore pubblico. Se davvero si ritiene che le leggi attuali non tutelino abbastanza, allora il luogo per correggerle è il Parlamento. Non l’aula di un tribunale, a epidemia in corso.
Finché non si affronterà questo nodo, continueremo a vedere la scienza frenata dalla burocrazia, la sanità pubblica inceppata dai ricorsi, e lo Stato ostaggio dei propri stessi strumenti.